Controrivoluzione

Contro ogni Rivoluzione

I nove comandamenti del pensiero unico (di Edward Feser)

Posted by Controrivoluzione su gennaio 1, 2010

L’egemonia della sinistra nelle università è così schiacciante che perfino le persone di sinistra non la mettono in dubbio. Si tratti di un’istituzione pubblica o privata, di un piccolo college o di un prestigioso campus universitario, si può prevedere con assoluta certezza che i temi che pervadono i programmi di studio saranno questi:
a) il capitalismo è intrinsecamente ingiusto, disumano e portatore di miseria;
b) il socialismo, quali che siano i suoi fallimenti pratici, è motivato dai più alti ideali e i suoi luminari, specialmente Marx, hanno ancora molto da insegnarci;
c) la globalizzazione danneggia i poveri del Terzo Mondo;
d) le risorse naturali si stanno consumando e l’attività industriale è sempre più minacciosa per l’ambiente;
e) quasi tutte le differenze psicologiche e comportamentali tra uomini e donne sono «socialmente costruite», e le loro differenze di reddito o di presenza nelle diverse professioni sono per la maggior parte il risultato dal «sessismo»;
f) i problemi dell’underclass negli Stati Uniti sono dovuti al razzismo, mentre quelli del Terzo Mondo sono dovuti ai perduranti effetti del colonialismo;
g) la civiltà occidentale è oppressiva in maniera unica, specialmente verso le donne e la gente di colore, e i suoi prodotti sono spiritualmente inferiori a quelli delle culture non-occidentali;
h) le credenze religiose tradizionali, specialmente quelle cristiane, si fondano sull’ignoranza dei moderni sviluppi scientifici e oggi non possono più essere razionalmente giustificate;
i) gli scrupoli morali tradizionali, riguardanti specialmente il sesso, si basano sulla superstizione e sull’ignoranza e non hanno alcun fondamento razionale…
Ciascuna di queste affermazioni è a mio avviso falsa, in alcuni casi in maniera dimostrabile. Tuttavia è molto raro sentire nelle università qualcuno che sfidi seriamente queste affermazioni, di solito accettate come talmente ovvie da far credere che ogni visione contrastante sia motivata da ignoranza o interesse personale. I grandi pensatori del passato che difendevano opinioni opposte alle loro vengono trattati come reperti archeologici, e i loro argomenti vengono presentati in forma caricaturale allo scopo di ridicolizzarli; i pensatori del presente che difendono queste idee, quando non sono totalmente ignorati, vengono presentati come macchiette per poi essere consegnati all’oblio. Visitando un moderno campus universitario si sente ripetere il mantra della «diversità» tante di quelle volte, che viene voglia di urlare «Basta!». L’unica diversità che non si incontrerà mai è quella che più conta in un contesto accademico: la diversità di pensiero sulle più fondamentali questioni riguardanti la religione, la moralità, la politica .
Ora, la domanda è: perché l’università è caduta in pieno dominio della sinistra? Esistono diverse teorie. La prima potrebbe essere chiamata la «teoria della sopravvivenza del più a sinistra». L’idea sarebbe che i professori, a dispetto delle chiacchiere sulla diversità, tendono a circondarsi di colleghi che la pensino come loro in questioni di politica, moralità e cultura. Poiché i professori tendono a essere di sinistra, quelli nettamente di destra tenderanno a essere eliminati dalla «selezione» quando si devono decidere assegnazioni di cattedre.
Il problema di questa teoria è che spiega al massimo come un professore sinistroide diventi tale una volta che il numero degli accademici di sinistra raggiunga una massa critica, e come successivamente conservi la propria posizione. Ma perché mai dovrebbe formarsi questa massa critica? E perché non ci sono significative forze conservatrici capaci di mantenere un equilibrio ideologico? Sembrerebbe che ci sia qualcosa nella natura stessa della professione che inclini i suoi rappresentanti verso sinistra.
Robert Nozick, nel saggio Perché gli intellettuali si oppongono al capitalismo?, suggerisce che la spiegazione possa essere rinvenuta negli anni formativi dell’intellettuale medio. Questi rappresenta quel genere di persona che, a scuola, va bene sul piano intellettuale ma non altrettanto sul piano sociale. Egli cioè viene ricompensato per il modo esemplare con cui si conforma alle direttive dell’autorità centrale (l’insegnante) che applica un piano completo e dettagliato (il programma di studi) entro un sistema sociale irreggimentato (la classe scolastica); ma non viene remunerato allo stesso modo per i contributi che cerca di offrire alla sfera decentralizzata e non pianificata delle interazioni volontarie che costituiscono la vita di una persona giovane fuori dalla classe (le attività sportive, le feste, le relazioni con l’altro sesso…). Così egli tende naturalmente a pensare che lo scenario del primo tipo sia più ragionevole e giusto del secondo, e generalizzando tenderà a favorire le politiche che comportano la pianificazione centralizzata piuttosto che i risultati non pianificati della libera interazione dei cittadini nel mercato.
Simile è la «teoria del risentimento»: non solo negli anni della loro formazione, ma anche durante la loro vita lavorativa gli intellettuali tendono a vedersi trattati ingiustamente dai loro coetanei. Come Ludwig von Mises ha sottolineato in La mentalità anticapitalistica, gli intellettuali provano risentimento per i più elevati guadagni monetari che nella società capitalista accumulano uomini d’affari, atleti e uomini di spettacolo – quello stesso genere di persone, si noti, che in gioventù erano più popolari dei secchioni imbranati sui campi da gioco e alle feste – pur considerando la propria meno lucrativa occupazione di gran lunga più importante.
Se l’ultimo album del cantante Diddy vende milioni di copie mentre la magistrale storia del Liechtenstein in cinque volumi del professor Doddy vende 106 copie, tutte acquistate da biblioteche universitarie, il professor Doddy inizia a domandarsi se il libero mercato rappresenti il sistema più equo per distribuire le ricompense economiche.
Questo ci porta però alla «teoria del filosofo-re». È probabile che molte volte l’intellettuale veda il mancato apprezzamento del proprio lavoro come un’ingiustizia non solo nei propri confronti, ma anche verso gli altri: in altre parole, chi non preferisce l’opera degli intellettuali sarebbe responsabile anche di un grave danno nei confronti di se stesso. Per il loro stesso bene, quindi, agli individui non dovrebbe essere lasciata molta libertà di scelta, e gli esperti nel gestire gli affari umani dovrebbero trovarsi a dirigere le loro vite al posto loro.
L’intellettuale, fantasticando di essere egli stesso un tale esperto, si offrirebbe altruisticamente come volontario per svolgere questo compito. Qui siamo effettivamente in presenza dell’ideale del «filosofo-re», e con esso di un’altra possibile spiegazione del perché gli intellettuali tendano a sinistra: la prospettiva che l’incremento del potere statale gli possa fornire maggiori opportunità per applicare la proprie idee. Come Hayek suggerisce nel saggio Gli intellettuali e il socialismo, per l’intellettuale medio è del tutto ragionevole l’idea che le persone più intelligenti dovrebbero essere le uniche a dirigere tutto. Naturalmente questo dà per scontato che loro siano in generale capaci di gestire le cose meglio degli altri: un assunto che stranamente queste menti cosiddette indagatrici non sembrano disposte a mettere in questione. L’intellettuale quindi si trastulla sempre con l’idea che le cose andrebbero molto meglio se solo tutti seguissero la visione del mondo che lui e i suoi colleghi hanno discusso nelle riviste accademiche.
Come ha scritto Hayek ne La presunzione fatale «le persone intelligenti tenderanno a sopravvalutare l’intelligenza», e troveranno perfino scandalosa l’idea che l’intelligenza sia qualcosa che possa essere sopravvalutata. La cosa è invece del tutto possibile, dato che anche l’intelligenza dell’essere umano più brillante ha dei limiti. Riconoscerlo richiede una semplice dose d’umiltà, virtù che generalmente scarseggia tra gli intellettuali. Pur mancando di umiltà, alla fine l’intellettuale non dovrebbe arrivare a vedere le fredde e dure dimostrazioni della propria estrema inefficacia come pianificatore sociale?
Non necessariamente, almeno se sosteniamo la «teoria della testa fra le nuvole». Questa è probabilmente la teoria favorita dal non-intellettuale medio: per quanto intelligenti possano essere nelle materie teoriche, nelle questioni pratiche gli intellettuali sono considerati del tutto privi di buon senso e saggezza quotidiana. E poiché gli ideali di sinistra sono paradigmaticamente contrari al senso comune e scollegati dalla realtà, non c’è da sorprendersi che gli intellettuali siano attratti da essi.
Infine, c’è la «teoria dell’interesse di classe», secondo la quale la classe dei professori, una volta messa da parte la calcolata ipocrisia del noblesse oblige, non è affatto la disinteressata Educatrice del Popolo come ama presentarsi. È solo un altro meschino gruppo di pressione, che lotta con gli altri animali nella giungla del welfare state per arrivare al capezzolo del governo. Avendo maggiori capacità di articolare le parole, riesce più facilmente a mascherare i propri reali motivi: si presenta infatti come un nuovo ceto sacerdotale, la cui religione socialista offre allo Stato una giustificazione per la sua esistenza in cambio di un’occupazione permanente nelle fabbriche statali della propaganda (scuole pubbliche e università), e dell’opportunità di elaborare a tavolino i piani che i funzionari statali applicheranno. Il sinistrismo degli intellettuali è così facilmente comprensibile, dato che si tratta precisamente dell’ideologia che ognuno si aspetterebbe dalla classe dei cortigiani di Stato.
Di fatto, è molto profittevole per un intellettuale sostenere le politiche di sinistra, dato che queste richiedono inevitabilmente programmi di lavoro per gli «esperti», cioè per gli intellettuali stessi.
Come tutte le spiegazioni ispirate dalla teoria marxista dell’ideologia, anche questa non deve però essere esagerata; nessun conservatore dovrebbe emulare la volgare inclinazione dei marxisti a respingere istintivamente tutti i punti di vista opposti al proprio usando argomenti ad hominem.
Edward Feser
(Professore di filosofia alla Loyola Marymount University di Los Angeles)

L’egemonia della sinistra nelle università è così schiacciante che perfino le persone di sinistra non la mettono in dubbio. Si tratti di un’istituzione pubblica o privata, di un piccolo college o di un prestigioso campus universitario, si può prevedere con assoluta certezza che i temi che pervadono i programmi di studio saranno questi:
il capitalismo è intrinsecamente ingiusto, disumano e portatore di miseria;il socialismo, quali che siano i suoi fallimenti pratici, è motivato dai più alti ideali e i suoi luminari, specialmente Marx, hanno ancora molto da insegnarci;la globalizzazione danneggia i poveri del Terzo Mondo;le risorse naturali si stanno consumando e l’attività industriale è sempre più minacciosa per l’ambiente;quasi tutte le differenze psicologiche e comportamentali tra uomini e donne sono «socialmente costruite», e le loro differenze di reddito o di presenza nelle diverse professioni sono per la maggior parte il risultato dal «sessismo»;i problemi dell’underclass negli Stati Uniti sono dovuti al razzismo, mentre quelli del Terzo Mondo sono dovuti ai perduranti effetti del colonialismo;la civiltà occidentale è oppressiva in maniera unica, specialmente verso le donne e la gente di colore, e i suoi prodotti sono spiritualmente inferiori a quelli delle culture non-occidentali;le credenze religiose tradizionali, specialmente quelle cristiane, si fondano sull’ignoranza dei moderni sviluppi scientifici e oggi non possono più essere razionalmente giustificate;gli scrupoli morali tradizionali, riguardanti specialmente il sesso, si basano sulla superstizione e sull’ignoranza e non hanno alcun fondamento razionale…
Ciascuna di queste affermazioni è a mio avviso falsa, in alcuni casi in maniera dimostrabile. Tuttavia è molto raro sentire nelle università qualcuno che sfidi seriamente queste affermazioni, di solito accettate come talmente ovvie da far credere che ogni visione contrastante sia motivata da ignoranza o interesse personale. I grandi pensatori del passato che difendevano opinioni opposte alle loro vengono trattati come reperti archeologici, e i loro argomenti vengono presentati in forma caricaturale allo scopo di ridicolizzarli; i pensatori del presente che difendono queste idee, quando non sono totalmente ignorati, vengono presentati come macchiette per poi essere consegnati all’oblio. Visitando un moderno campus universitario si sente ripetere il mantra della «diversità» tante di quelle volte, che viene voglia di urlare «Basta!». L’unica diversità che non si incontrerà mai è quella che più conta in un contesto accademico: la diversità di pensiero sulle più fondamentali questioni riguardanti la religione, la moralità, la politica .

Ora, la domanda è: perché l’università è caduta in pieno dominio della sinistra? Esistono diverse teorie. La prima potrebbe essere chiamata la «teoria della sopravvivenza del più a sinistra». L’idea sarebbe che i professori, a dispetto delle chiacchiere sulla diversità, tendono a circondarsi di colleghi che la pensino come loro in questioni di politica, moralità e cultura. Poiché i professori tendono a essere di sinistra, quelli nettamente di destra tenderanno a essere eliminati dalla «selezione» quando si devono decidere assegnazioni di cattedre. Il problema di questa teoria è che spiega al massimo come un professore sinistroide diventi tale una volta che il numero degli accademici di sinistra raggiunga una massa critica, e come successivamente conservi la propria posizione. Ma perché mai dovrebbe formarsi questa massa critica? E perché non ci sono significative forze conservatrici capaci di mantenere un equilibrio ideologico? Sembrerebbe che ci sia qualcosa nella natura stessa della professione che inclini i suoi rappresentanti verso sinistra.

Robert Nozick, nel saggio Perché gli intellettuali si oppongono al capitalismo?, suggerisce che la spiegazione possa essere rinvenuta negli anni formativi dell’intellettuale medio. Questi rappresenta quel genere di persona che, a scuola, va bene sul piano intellettuale ma non altrettanto sul piano sociale. Egli cioè viene ricompensato per il modo esemplare con cui si conforma alle direttive dell’autorità centrale (l’insegnante) che applica un piano completo e dettagliato (il programma di studi) entro un sistema sociale irreggimentato (la classe scolastica); ma non viene remunerato allo stesso modo per i contributi che cerca di offrire alla sfera decentralizzata e non pianificata delle interazioni volontarie che costituiscono la vita di una persona giovane fuori dalla classe (le attività sportive, le feste, le relazioni con l’altro sesso…). Così egli tende naturalmente a pensare che lo scenario del primo tipo sia più ragionevole e giusto del secondo, e generalizzando tenderà a favorire le politiche che comportano la pianificazione centralizzata piuttosto che i risultati non pianificati della libera interazione dei cittadini nel mercato.

Simile è la «teoria del risentimento»: non solo negli anni della loro formazione, ma anche durante la loro vita lavorativa gli intellettuali tendono a vedersi trattati ingiustamente dai loro coetanei. Come Ludwig von Mises ha sottolineato in La mentalità anticapitalistica, gli intellettuali provano risentimento per i più elevati guadagni monetari che nella società capitalista accumulano uomini d’affari, atleti e uomini di spettacolo – quello stesso genere di persone, si noti, che in gioventù erano più popolari dei secchioni imbranati sui campi da gioco e alle feste – pur considerando la propria meno lucrativa occupazione di gran lunga più importante.Se l’ultimo album del cantante Diddy vende milioni di copie mentre la magistrale storia del Liechtenstein in cinque volumi del professor Doddy vende 106 copie, tutte acquistate da biblioteche universitarie, il professor Doddy inizia a domandarsi se il libero mercato rappresenti il sistema più equo per distribuire le ricompense economiche.

Questo ci porta però alla «teoria del filosofo-re». È probabile che molte volte l’intellettuale veda il mancato apprezzamento del proprio lavoro come un’ingiustizia non solo nei propri confronti, ma anche verso gli altri: in altre parole, chi non preferisce l’opera degli intellettuali sarebbe responsabile anche di un grave danno nei confronti di se stesso. Per il loro stesso bene, quindi, agli individui non dovrebbe essere lasciata molta libertà di scelta, e gli esperti nel gestire gli affari umani dovrebbero trovarsi a dirigere le loro vite al posto loro.L’intellettuale, fantasticando di essere egli stesso un tale esperto, si offrirebbe altruisticamente come volontario per svolgere questo compito. Qui siamo effettivamente in presenza dell’ideale del «filosofo-re», e con esso di un’altra possibile spiegazione del perché gli intellettuali tendano a sinistra: la prospettiva che l’incremento del potere statale gli possa fornire maggiori opportunità per applicare la proprie idee. Come Hayek suggerisce nel saggio Gli intellettuali e il socialismo, per l’intellettuale medio è del tutto ragionevole l’idea che le persone più intelligenti dovrebbero essere le uniche a dirigere tutto. Naturalmente questo dà per scontato che loro siano in generale capaci di gestire le cose meglio degli altri: un assunto che stranamente queste menti cosiddette indagatrici non sembrano disposte a mettere in questione. L’intellettuale quindi si trastulla sempre con l’idea che le cose andrebbero molto meglio se solo tutti seguissero la visione del mondo che lui e i suoi colleghi hanno discusso nelle riviste accademiche. Come ha scritto Hayek ne La presunzione fatale «le persone intelligenti tenderanno a sopravvalutare l’intelligenza», e troveranno perfino scandalosa l’idea che l’intelligenza sia qualcosa che possa essere sopravvalutata. La cosa è invece del tutto possibile, dato che anche l’intelligenza dell’essere umano più brillante ha dei limiti. Riconoscerlo richiede una semplice dose d’umiltà, virtù che generalmente scarseggia tra gli intellettuali. Pur mancando di umiltà, alla fine l’intellettuale non dovrebbe arrivare a vedere le fredde e dure dimostrazioni della propria estrema inefficacia come pianificatore sociale?

Non necessariamente, almeno se sosteniamo la «teoria della testa fra le nuvole». Questa è probabilmente la teoria favorita dal non-intellettuale medio: per quanto intelligenti possano essere nelle materie teoriche, nelle questioni pratiche gli intellettuali sono considerati del tutto privi di buon senso e saggezza quotidiana. E poiché gli ideali di sinistra sono paradigmaticamente contrari al senso comune e scollegati dalla realtà, non c’è da sorprendersi che gli intellettuali siano attratti da essi.

Infine, c’è la «teoria dell’interesse di classe», secondo la quale la classe dei professori, una volta messa da parte la calcolata ipocrisia del noblesse oblige, non è affatto la disinteressata Educatrice del Popolo come ama presentarsi. È solo un altro meschino gruppo di pressione, che lotta con gli altri animali nella giungla del welfare state per arrivare al capezzolo del governo. Avendo maggiori capacità di articolare le parole, riesce più facilmente a mascherare i propri reali motivi: si presenta infatti come un nuovo ceto sacerdotale, la cui religione socialista offre allo Stato una giustificazione per la sua esistenza in cambio di un’occupazione permanente nelle fabbriche statali della propaganda (scuole pubbliche e università), e dell’opportunità di elaborare a tavolino i piani che i funzionari statali applicheranno. Il sinistrismo degli intellettuali è così facilmente comprensibile, dato che si tratta precisamente dell’ideologia che ognuno si aspetterebbe dalla classe dei cortigiani di Stato.Di fatto, è molto profittevole per un intellettuale sostenere le politiche di sinistra, dato che queste richiedono inevitabilmente programmi di lavoro per gli «esperti», cioè per gli intellettuali stessi.Come tutte le spiegazioni ispirate dalla teoria marxista dell’ideologia, anche questa non deve però essere esagerata; nessun conservatore dovrebbe emulare la volgare inclinazione dei marxisti a respingere istintivamente tutti i punti di vista opposti al proprio usando argomenti ad hominem.
Edward Feser(Professore di filosofia alla Loyola Marymount University di Los Angeles)

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PERCHÉ LE UNIVERSITÀ SONO DOMINATE DALLA SINISTRA? (Seconda parte)

Posted by Controrivoluzione su dicembre 17, 2009

PERCHÉ LE UNIVERSITÀ SONO DOMINATE DALLA SINISTRA?

Edward Feser

PARTE II

L’OPPIO DEI PROFESSORI

Quando venne chiesto a Woodrow Wilson quale fosse lo scopo di un’educazione liberale, rispose: “Rendere una persona la più diversa possibile dal proprio padre”. A quel tempo egli era solo il preside della Princeton University, e non era ancora diventato il professorino a capo degli Stati Uniti che entrò nella guerra che doveva far cessare tutte le guerre e rendere il mondo sicuro per la democrazia. Ma per le sue note idee riguardanti l’elevazione sociale e il trasparente internazionalismo, così come per la sua filosofia dell’educazione, Wilson rappresentava già il modello stesso dell’accademico progressista.
Quale che sia la blanda ufficiale dichiarazioni d’intenti che appare nell’introduzione del prospetto di un moderno college universitario, in pratica la sua vera ragion d’essere non è altro che quella di distruggere completamente qualsivoglia fedeltà una giovane persona possa provare per i tradizionali concetti della morale, della religione, della politica e della cultura, e per “infangare” la fede dei suoi padri, nel suo paese e in quelli che la maggior parte degli esseri umani ha storicamente concepito essere gli imperativi della decenza. In breve, propagandare il sinistrismo.
In precedenza ho esaminato varie teorie che sono state proposte per spiegare questo fenomeno, trovandole inadeguate. Adesso voglio sviluppare quella che a me sembra una spiegazione più completa e profonda. Possiamo notare innanzitutto che di fatto la funzione dell’università moderna è l’esatto opposto della tradizionale idea di educazione, che era quella di socializzare i giovani instillando loro, ad un più alto livello intellettuale, la cultura che avevano ereditato dai loro progenitori. Il professore era il guardiano di una tradizione più grande dello studente e più grande di se stesso, una tradizione che era suo dovere impartire: non certamente in maniera acritica, ma nello stesso tempo con una riverenza ed un’umiltà appropriata alla grandezza di una civiltà che esisteva da due millenni e mezzo, per la saggezza che le sue istituzioni incarnano e che i suoi pensatori hanno articolato.
La civiltà di cui parlo è, naturalmente, quella occidentale, le cui origini risiedono nell’antica Grecia, in Roma e nell’antico Israele, e i cui moderni elementi caratteristici includono la tradizione religiosa giudeo-cristiana, gli ideali politici dei diritti individuali, il governo limitato e la rule of law, e un ordine economico capitalistico di libero mercato. Ci si aspetterebbe quindi che un programma di studi finalizzato a impartire ai giovani una sofisticata comprensione dei fondamenti intellettuali della propria civiltà enfatizzerebbe, ad esempio, Platone e Aristotele, il Nuovo e Vecchio Testamento, Sant’Agostino e San Tommaso d’Aquino, Locke e Smith, Burke e Tocqueville, Oakeshott e Hayek. Invece è estremamente facile acquisire una laurea in una moderna università senza aver mai incontrato una sola di queste figure o di questi testi. È molto più frequente invece che l’unico incontro dello studente con queste fonti sia regolarmente mediato da veleni spirituali, come i lunghi, noiosi e petulanti scritti di Howard Zinn e Noam Chomsky: lavori che consistono in niente di più che volgari pamphlet politici privi di qualsiasi peso intellettuale, di terza categoria anche per gli standard sinistrorsi.
Per apprezzare pienamente la portata di questo cambiamento negli obiettivi istituzionali, immaginiamo un giovane appena entrato in un’accademia contemporanea a gran costo per i genitori, immigrati dalla semplice fede religiosa fuggiti da una tirannia estera per trovare in America le libertà politiche e le opportunità economiche che l’hanno sempre caratterizzata. Le loro ambizioni per il figlio sono: che arrivi ad amare il suo nuovo paese quanto loro e che approfitti al massimo della libertà che gli offre; che ringrazi Dio continuamente per l’immensa benedizione di aver reso possibile questa libertà; e che si sforzi di vivere la sua fede in modo da dar valore a questa libertà, diventando una ricchezza per il suo paese e per i suoi concittadini e facendo onore alla sua famiglia. In breve, sognano che egli torni da scuola come un educato gentiluomo, la cui pietà e il cui patriottismo sono stati rafforzati dal suo contatto con lo studio e l’alta cultura. Cosa ne rimane tuttavia di questo ragazzo dopo quattro anni di frequentazione di un’università contemporanea, dopo che i professori hanno avuto la possibilità di modellarlo secondo la propria concezione del Nuovo Uomo Progressista? Un fumatore drogato che indossa una maglietta con l’effigie di Che Guevara, che parla con un linguaggio scurrile e che pratica la promiscuità sessuale, la cui concezione della più alta vita morale comprende il riciclaggio dei rifiuti e votare per il partito dei verdi, e la cui idea di “spiritualità” consiste nel partecipare a qualche bizzarro festival New Age nel deserto del Nevada. Non gli è stato insegnato nulla della sua religione, eccetto che si tratta di un’impostura repressiva; nulla della moralità sessuale eccetto che non esiste; nulla del suo paese e della sua storia eccetto che si tratta di una terra di “razzisti”, “sessisti”, “omofobici” e insensibili verso le persone in carrozzella, e che per migliorare dovrebbe assomigliare di più al paese dal quale i suoi genitori sono scappati passando sotto il filo spinato.
L’orientamento di sinistra dell’università di oggi è quindi un mero corollario della sua tendenza alla sovversione della tradizione. Come ho già notato, non è solamente questo pregiudizio sovversivo ad essere curioso, ma la sua palese perversità: il modo in cui deliberatamente dileggia il senso comune; il modo in cui rifiuta di imparare qualcosa dalle reali esperienze storiche del comunismo e di altri movimenti rivoluzionari; il modo in cui ignora risolutamente, malgrado il suo sbandierato interesse per la “diversità” e il “pensiero critico”, i numerosi argomenti sofisticati in difesa dei comportamenti e delle istituzioni tradizionali prodotti dai pensatori di ieri e di oggi. Come si spiega tutto questo?

Gli antichi ideali

Per iniziare a rispondere, parto dalla considerazione che l’antico ideale educativo che ho descritto fu per la maggior parte pienamente realizzato nel Medioevo. La storia standardizzata di questo periodo è la seguente: per più di millecinquecento anni dall’avvento del Cristianesimo la civiltà europea è rimasta nell’oscurantismo; poi venne la scienza moderna, e fu la luce. Questo resoconto è naturalmente solo una favoletta del tipo di quelle che si raccontano ai bambini, che però ha avuto un effetto ipnotico sulle menti degli intellettuali contemporanei: in realtà la rivoluzione scientifica fu in larga parte uno sviluppo naturale e graduale delle tendenze intellettuali medievali, mentre gli uomini del Medioevo erano più illuminati e quelli moderni più superstiziosi di quanto si creda. La scoperta che il sole si trova al centro del nostro sistema solare e che l’uomo possa discendere dalle scimmie è parso loro invalidare, o quantomeno a mettere seriamente in dubbio, quasi tutto quello che era stato detto o pensato fino allora, cioè prima di quando Voltaire iniziò a diffondere le sue prime parole blasfeme.
Come ha sostenuto il filosofo David Stove, la moderna tendenza all’iperscetticismo sembra essere largamente il risultato di una eccessiva generalizzazione di pochi casi in cui il senso comune si era rivelato sbagliato. Un altro filosofo, Michael Levin, ha individuato questo peculiare errore di ragionamento del pensiero moderno come la fallacia secondo cui “le cose sono raramente quel che sembrano”, per cui si presume in generale che il senso comune sia sbagliato.
Ora, forse non sorprende che sui fenomeni lontani dall’esperienza umana quotidiana, come la struttura dello spazio-tempo, il regno microscopico delle molecole e degli atomi e così via, gli uomini si fossero fatti idee sbagliate per lunghi periodi di tempo. Ma nelle questioni di ogni giorno, riguardanti la natura umana e l’ordinaria interazione sociale, è molto probabile che, in generale, le opinioni comuni non siano sbagliate. L’evoluzione biologica e culturale garantisce che i gravi errori in questioni come queste vengano prima o poi eliminati. I dettagli del perché di tutto questo non ci preoccupano in questo momento, e riguardano la giustificazione conservatrice della tradizione e del senso comune associata soprattutto a Burke e Hayek, le cui idee ho difeso altrove. Per i presenti scopi è sufficiente notare che sussistono valide ragioni per essere scettici verso lo scetticismo nei confronti del senso comune e degli atteggiamenti tradizionali che permea la moderna vita intellettuale.
Che in parte lo riconoscano anche i moderni intellettuali è evidente dalla loro immancabile sollecitudine per le tradizioni delle culture non-occidentali: perfino quei casi difficili per le tesi burkiane e hayekiane come l’infibulazione rituale africana trovano apologeti tra alcune femministe occidentali molto sensibili culturalmente (ma a quanto pare non altrettanto corporalmente). Di fatto, sono solo i comportamenti tradizionali dell’occidentale medio che lasciano freddi gli accademici. Per questo motivo la fallacia delle “cose che non sono come appaiono” non può essere l’unica ragione dietro al fenomeno che stiamo cercando di spiegare: i moderni intellettuali la commettono troppo selettivamente per essere un errore commesso con onestà.

Un’ostilità selettiva

Qual è allora la fonte di questa ostilità indirizzata unicamente verso i comportamenti ispirati alla tradizione e al senso comune occidentale? Guardiamo più da vicino le favoletta a cui abbiamo alluso prima. Per avere una sembianza di verità, qualcosa di assolutamente cruciale alla visione del mondo dell’Età della Fede dovrebbe essere stato confutato dalla scienza moderna; e per giustificare il pregiudizio indirizzato esclusivamente verso la tradizione occidentale deve per forza trattarsi di un’idea o di un sistema di idee peculiarmente occidentale.
Di cosa si tratta esattamente? L’ovvia riposta sembrerebbe l’idea tradizionale di creazione, secondo cui la razza umana nacque nel Giardino dell’Eden come effetto dell’azione divina: idea notoriamente sfidata dalla teoria evoluzionistica di Darwin. Questa risposta presenta però dei problemi. Da una parte, perché l’ostilità degli intellettuali verso l’eredità giudaico-cristiana dell’Occidente, benché abbia raggiunto il suo pieno dispiegamento nel XX secolo, è iniziata molto prima di quando Darwin salpò per le Galapagos. Dall’altra, perché la tradizione religiosa occidentale non è certo l’unica ad adottare una concezione sovrannaturale dell’origine dell’uomo. Eppure nessun intellettuale, pur non considerando come serie teorie scientifiche i tradizionali resoconti sull’origine dell’uomo degli indù, dei cinesi o degli indiani d’America, si sognerebbe mai di disprezzarli: al contrario, essi fanno parte di quello splendido mosaico o macedonia (o cosa diavolo sia) di diversità multiculturali che ci chiedono incessantemente di “celebrare”. Perfino i più belligeranti tradizionalisti religiosi non-occidentali che resistono al moderno studio scientifico dell’uomo vengono trattati con la massima deferenza: basti pensare al Corpo Genieri dell’esercito americano che ha riseppellito gentilmente le prove legate all’“Uomo di Kennewick”, che potevano andare contro certe concezioni degli indiani americani riguardanti le origini dei propri antenati. Per contrasto, il fondamentalista protestante che educatamente propone che il darwinismo venga quanto meno aperto alla discussione è trattato egli stesso come un reperto da museo, da mettere vicino agli altri uomini di Neandhertal.
Perdipiù la tradizione giudaico-cristiana, che dopo tutto ha sempre visto nell’essere umano un’origine materiale (Adamo è stato fatto con “la polvere della terra”) e non ha mai negato le evidenti continuità anatomiche tra l’uomo e gli animali, non è mai stata particolarmente interessata all’origine del corpo umano. Che l’uomo sia stato fatto ad immagine di Dio è stato inteso sotto il profilo della sua capacità di ragionamento astratto, che la tradizione occidentale ha sempre considerato come l’attributo essenziale della mente umana; questa immaterialità o inesplicabilità in termini puramente fisici della mente è sempre stata considerata (da Platone ad Aristotele a Sant’Agostino a Cartesio e Leibniz a Popper fino ad un crescente numero di pensatori contemporanei) una conclusione puramente filosofica (e quindi razionalmente dimostrabile), più che un presupposto teologico.

La metafisica e la scienza

Stiamo arrivando al cuore del problema. Gli assunti centrali e indispensabili della visione religiosa occidentale del mondo non riguardano le origini del corpo umano come organismo, né la posizione della Terra rispetto agli altri corpi celesti, e nemmeno qualsiasi altra questione di tipo puramente scientifico. Sono invece assunti di natura metafisica, e la loro verità deve pertanto essere determinata, in ultima analisi, dal ragionamento filosofico e non dall’investigazione empirica. L’immaterialità della mente umana (o dell’anima, per usare un linguaggio più tradizionale) non è che una di queste assunzioni (generalmente chiamata dualismo). Un’altra è l’esistenza di un Essere Necessario che serva come spiegazione ultima o Causa Prima del mondo che sperimentiamo e delle leggi scientifiche che lo governano: in altre parole, l’esistenza di Dio (la cui credenza viene definita dai filosofi teismo). Una terza assunzione è la realtà del regno delle entità astratte (verità matematiche, forme platoniche e così via), cioè di essenze o nature delle cose obiettivamente esistenti, immateriali, non cangianti, delle quali gli organismi e gli oggetti materiali sono solo imperfette realizzazioni (una filosofia conosciuta come platonismo).
Se la fondatezza di ciascuno di questi assunti venisse stabilita, la visione religiosa giudeo-cristiana del mondo sarebbe in larga parte vendicata, qualunque cosa la scienza possa scoprire; e se ognuna di esse fosse confutata, anche questa visione del mondo lo sarebbe in maniera decisiva, pur se tutti i biologi abbandonassero il darwinismo da domani. Le scoperte della scienza sono di per sé irrilevanti per il nostro problema.
Se non dagli scienziati, questi assunti cruciali sono forse stati demoliti dai filosofi? Nessun filosofo moderno potrebbe onestamente affermarlo; casomai è il contrario. Ciascuna di queste assunzioni è dibattuta oggi quanto lo era un tempo. Chiunque sia al corrente del dibattito filosofico contemporaneo sa che è incentrato sulla questione: possono essere “naturalizzati” fenomeni quali la mente umana e la sua capacità di rappresentarsi il mondo attorno a sé, la nostra conoscenza del mondo in generale e delle verità matematiche in particolare, e le nostre conclusioni metafisiche riguardo i componenti base della realtà? In altre parole, in ogni sua branca il dibattito filosofico indaga principalmente la possibilità di spiegare o rendere conto di questi fenomeni in termini puramente naturali, che non facciano riferimento a entità o principi non-fisici o immateriali. La ragione per cui questo è il punto caldo del dibattito è che nessuno è stato in grado di spiegare materialisticamente tali fenomeni. Naturalmente ogni filosofo può avere la sua teoria preferita; la maggior parte dei filosofi contemporanei, essendo dei moderni intellettuali, pensano che prima o poi queste cose verranno spiegate “naturalisticamente”. Tutti però sanno che finora nessuno vi è riuscito in maniera decisiva e convincente.
Da dove nasce allora tutta la loro fiducia? Si potrebbe rispondere che si tratta di una questione di fede, e che non vi sono motivi razionali. Infatti, gli argomenti forniti dai contemporanei “naturalisti” (o, come piace loro farsi chiamare oggi, “materialisti”  coloro che credono che tutta la realtà è materiale) non sono altro che piccole variazioni degli stessi argomenti che i materialisti hanno tirato fuori per millenni, e che sono soggetti alle stesse obiezioni che i dualisti, i platonici e i filosofi teisti hanno formulato per la prima volta nell’antica Grecia e nell’Europa medievale, e che da allora hanno tormentato i materialisti.
Non sostengo che quelle obiezioni siano assolutamente decisive (o meglio, lo penso  ma occorre ben più di un breve saggio per dimostrarlo). Affermo piuttosto che sono obiezioni serie e formidabili, come tali riconosciute dagli stessi filosofi materialisti: è questo il motivo per cui scrivono un libro dopo l’altro per confutarle (ancora senza successo, secondo il mio punto di vista; e certamente in maniera non definitiva, dato che il tentativo di demolire il dualismo, il platonimo e il teismo dura da secoli).
L’annoso conflitto “scienza contro religione” è dunque un mito. Esiste in realtà una disputa tra sistemi metafisici rivali: da un lato il teismo, il dualismo e il platonismo della tradizione filosofica occidentale, e dall’altro il moderno naturalismo o materialismo, che non è tanto un prodotto della scienza moderna quanto di un’interpretazione ideologicamente secolarizzata di essa. Per gli intellettuali contemporanei c’è però, potremmo dire, un valore di pubbliche relazioni nel mantenere in vita la finzione della guerra tra scienza in sé e religione, e che quest’ultima stia perdendo: è più facile così insinuare che nella battaglia reale, quella filosofica, dev’essere concesso il beneficio del dubbio ai materialisti piuttosto che ai loro avversari. Ancora una volta, non esiste alcuna giustificazione razionale per questo atteggiamento; ma c’è un motivo, al quale il filosofo Thomas Nagel ha dato voce in un momento di franchezza raro tra i membri della sua professione. Nel suo libro The Last Word egli riconosce che è la “paura della religione” che trattiene gli intellettuali contemporanei dall’affrontare i profondi problemi in cui incorrono i tentativi materialistici di spiegare la natura della mente e della conoscenza umana:
«Parlo per esperienza, essendo stato io stesso fortemente soggetto a questa paura: io voglio che l’ateismo sia vero e mi mette a disagio il fatto che alcune delle persone più intelligenti e informate che conosco credano nella religione. Non che io non creda in Dio, e che speri naturalmente di aver ragione. È che spero che non ci sia Dio! Non voglio che ci sia un Dio; non voglio che l’universo sia così. Suppongo che questo problema di dover fare i conti con un’autorità cosmica non sia raro tra gli studiosi, e che sia responsabile della maggior parte dello scientismo e del riduzionismo del nostro tempo. Una delle tendenze che sostiene è il grottesco abuso della biologia evoluzionistica per spiegare qualsiasi cosa riguardi la vita umana, compresa la mente».

Ostilità al giudeo-cristianesimo

Ritorniamo al nostro quesito: qual è la ragione dell’ostilità rivolta unicamente verso la tradizione giudaico-cristiana? E in che modo i suoi presupposti filosofici la rendono agli occhi dell’intellettuale moderno più odiosa di ogni altra religione? Consideriamo alcune sue implicazioni. Se esiste un mondo oggettivo dove le cose hanno una loro essenza o natura, allora anche l’uomo ha un’essenza o una natura oggettiva, e questo comporta che non può esserci un sistema morale corretto che non riconosca questa natura: di conseguenza la legge morale è la legge naturale, e i diritti dell’uomo sono diritti naturali; inoltre l’una e gli altri sono assolutamente vincolanti e non soggetti ad alterazioni a seconda dei capricci dei libertini o dei disegni degli ingegneri sociali.
Se la sede della ragione umana è proprio in un’anima immateriale, allora l’uomo è in principio capace di comprendere queste nature oggettive e le loro conseguenze morali; perdipiù, è capace di vivere in conformità di queste conseguenze morali, dato che, avendo un’anima immateriale, non è solamente un animale completamente soggetto alle pulsioni biologiche e alle forze materiali, ma un essere dotato di libero arbitrio. E se esiste un Dio che ha fatto l’anima a sua immagine e somiglianza  con la sua ragione, la sua libera volontà e la sua capacità di fare il bene  allora questo Dio può giudicare gli esseri umani a seconda della loro conformità o non-conformità alla legge morale.
Le religioni non occidentali sono generalmente prive di questi elementi: la realtà ultima nel Buddismo e nell’Induismo, ad esempio, non è un Dio personale o un legislatore morale, ma un Assoluto impersonale del tutto indifferente a noi; in queste religioni non esiste l’anima nel senso occidentale del termine, perché non c’è neanche un io permanente e durevole, dato che l’essere individuale è solo un’illusione effimera e insignificante; di conseguenza, non c’è nessun significato ultimo della nostra conformità o meno ai dettati della morale. L’indù o il buddista tradizionale può sicuramente essere austero e moralista quanto un ebreo ortodosso o un conservatore cristiano; il punto è che questo moralismo non è guidato da una visione del Giudizio Finale o dalla speranza dell’immortalità personale e dell’eterna comunanza con il proprio creatore. È dunque più facile, per un occidentale in cerca di una “spiritualità alternativa” adottare l’esotica metafisica orientale e sbarazzarsi così della moralità senza timore di apparire incoerente. La religione orientale non pone infatti la stessa sfida morale alla contemporanea decadenza occidentale della religione tradizionale dell’Occidente stesso.
Questa sfida morale, suggerisco, è l’aspetto della tradizione giudaico-cristiana che l’intellettuale moderno detesta, e la sua ostilità verso quest’ultima si spiega col fatto che questa sfida provenga unicamente dalla visione metafisica dell’Occidente. Le dispute sul darwinismo sono marginali, e oso dire che perfino un creazionista sufficientemente a favore dell’aborto sarebbe ben accolto all’interno del vasto assortimento multiculturalista. L’obiettivo reale è l’idea di un ordine naturale metafisicamente implacabile al quale occorre sottomettersi, con tutto quello che comporta sul piano della natura umana e della legge morale. Il suo rifiuto costituisce la fonte profonda della perversità che domina nella moderna vita intellettuale.
È così forte l’odio del moderno intellettuale per la tradizionale moralità dell’Occidente e per la metafisica che la giustifica, che egli arriva a considerare l’ideologia di sinistra sorta in opposizione ad essa come un dogma, come un postulato immodificabile che deve essere propagandato, e i suoi avversari schiacciati ad ogni costo e a dispetto di tutte le prove contrarie. In altre parole, egli tratta la propria ideologia nell’identico modo in cui, secondo le sue accuse, i fondamentalisti cristiani trattano la loro religione.

L’oppio degli intellettuali

Il moderno intellettuale, infatti, non è meno bigotto: il sinistrismo, nelle parole di Raymond Aron, è “l’oppio degli intellettuali”; è la credenza fideistica nella possibilità di un mondo privo dell’esigente visione morale della tradizione occidentale e del Dio che è sempre stato visto come il suo Autore ed Esecutore; questo, in aggiunta ai fattori citati nella prima parte del mio saggio, spiega la presa che ha su di loro.
Il sinistrismo è l’immagine allo specchio distorta, il gemello malefico, del grande patrimonio religioso e culturale occidentale che veniva un tempo promosso nelle università, mentre i Dottori della Contro-Chiesa che lo ispirano sono i professori delle accademie moderne, non meno impegnati dei leggendari dottori medievali nell’indottrinare i giovani nel loro credo preferito. Costoro tuttavia non sono dottori accademici, neanche quanto i fisici del peggior livello: se è vero che il progressismo è, nelle parole di James Burnham, “l’ideologia del suicidio dell’Occidente”, i professori sono i suoi Kevorkian, o dottor-morte, culturali. La medicina “prescritta” nei corsi universitari riflette tutto questo, perché il “pensiero critico” è sempre ed esclusivamente una critica delle nozioni tradizionali occidentali riguardanti la religione, la cultura, la politica e la morale; “l’apertura mentale” è sempre ed esclusivamente apertura mentale verso le idee ostili a queste stesse nozioni tradizionali dell’Occidente; e così via.
Qualcuno potrebbe chiedersi: «Ma questa tesi non presenta un evidente difetto nel non considerare che anche l’uomo comune considera gravosa la tradizionale moralità giudeo-cristiana, pur non sostenendo le concezioni degli intellettuali di sinistra?». Il fatto è che oggi anche l’uomo comune condivide le loro visioni, almeno nell’essenza, e questa è una delle ragioni per cui continuano a dominare nelle università malgrado decenni di proteste da parte dei conservatori. Questo è vero perfino nei casi in cui l’uomo comune continui a mantenere, in maniera incoerente, anche un attaccamento sentimentale alle antiche tradizioni della propria cultura occidentale.
Sotto l’influenza dell’intellighentsia che si faceva via via “progressista”  esercitata attraverso le università, i media, le chiese principali e così via  anche l’uomo medio è diventato sempre più tale, per quanto non in maniera approfondita o ideologica. Egli vive dunque in uno stato di dissonanza cognitiva, lacerato tra il diavolo che sussurra in maniera allettante nel suo orecchio di sinistra, e l’angelo che sussurra al suo orecchio destro. Il richiamo all’auto-responsabilità e all’auto-limitazione, alla famiglia e alla fede, ha per lui ancora il suo fascino; tuttavia la prospettiva di espandere la redistribuzione governativa a spese altrui, o di continuare ad indulgere sensualmente senza conseguenze (eccetto che nei confronti dei propri figli, dell’ex coniuge, dei bambini non ancora nati o delle future generazioni, ma chi se ne importa di costoro!), esercita una spinta troppo potente perché il cittadino medio dell’Occidente moderno possa resistervi, rammollito com’è da mezzo secolo di assistenzialismo e “liberazione” sessuale.
La Nuova Religione degli intellettuali è qualcosa alla quale si è già mezzo convertito. I suoi bisnonni si sarebbero ritratti inorriditi davanti ad essa e a tutte le sue manifestazioni; i suoi bisnipoti sembrano destinati a bersela per intero, e perfino ad estendere la sua perversità antitradizionale e contraria al senso comune in modo tale, da far inorridire anche in questo tardo stadio del declino occidentale.
Il peccato può offuscare la mente di ogni uomo, producendo nella maggior parte delle persone un cattivo carattere e una cattiva coscienza. Ma negli intellettuali, date le loro grandi capacità di immaginazione e razionalizzazione, può generare un’intera visione del mondo; costoro infatti non sono sempre affidabili nella scelta dei principi primi, ma diversamente dai non intellettuali sono estremamente capaci di trarre con coerenza le implicazioni di quei principi.
Questo spiega perché l’ideologia di sinistra si sia ancor più avvicinata, nei passati decenni, alla follia vera e propria; e spiega anche perché, man mano che tale follia permeava sempre più in profondità la moderna società occidentale, le idee dei pensatori conservatori siano apparse sempre più all’uomo comune come qualcosa di romantico, irrealistico e irraggiungibile. Se il tipico uomo occidentale di oggi non ripete alla lettera i deliri dei marxisti e dei post-modernisti, non è tuttavia molto attirato neanche dalle dottrine dei tomisti, dei burkiani o degli hayekiani. Ormai è andato troppo oltre. Egli desidera un conservatorismo molto annacquato, che lasci quantomeno spazio al facile accesso alle droghe e alla pornografia quando ne ha voglia. Se questa è un’incoerenza, egli è ben contento che siano i professori a preoccuparsene.
E se questi gli dicono che dovrebbe rigettare il conservatorismo del tutto e optare invece per una visione del mondo specificamente designata a giustificare i piaceri e la pornografia, egli col passar degli anni diventa sempre più pronto ad ascoltarli. L’intellettuale moderno ricopre lo stesso ruolo del suo predecessore medievale: giustifica, propaganda e sistematicamente elabora una concezione del mondo verso la quale l’uomo comune è già ben disposto, seppur in maniera vaga e indefinita. L’oppio degli intellettuali promette di diventare l’oppio del popolo.

(Edward Feser è Visiting Assistant Professor of Philosophy alla Loyola Marymount University of Los Angeles)

(Traduzione di Guglielmo Piombini)

http://www.futureshock-online.info/index.html

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PERCHÉ LE UNIVERSITÀ SONO DOMINATE DALLA SINISTRA? (Prima parte)

Posted by Controrivoluzione su dicembre 16, 2009

PERCHÉ LE UNIVERSITÀ SONO DOMINATE DALLA SINISTRA?

Edward Feser

PARTE I

L’egemonia della sinistra nelle università è così schiacciante che perfino le persone di sinistra non la mettono in dubbio. Si tratti di un’istituzione pubblica o privata, di un piccolo college o di un prestigioso campus universitario, si può prevedere con assoluta certezza che i temi che pervadono i programmi di studio saranno più o meno questi:
• il capitalismo è intrinsecamente ingiusto, disumano e portatore di miseria;
• il socialismo, quali che siano i suoi fallimenti pratici, è motivato dai più alti ideali e i suoi luminari, specialmente Marx, hanno ancora molto da insegnarci;
• la globalizzazione danneggia i poveri del Terzo Mondo;
• le risorse naturali si stanno consumando ad un tasso allarmante e l’attività industriale umana sta diventando sempre più minacciosa per l’ambiente;
• quasi tutte le differenze psicologiche e comportamentali tra uomini e donne sono “socialmente costruite”, e le loro differenze di reddito o di presenza nelle diverse professioni sono per la maggior parte il risultato dal “sessismo”;
• i problemi dell’underclass negli Stati Uniti sono dovuti al razzismo, mentre quelli del Terzo Mondo sono dovuti ai perduranti effetti del colonialismo;
• la civiltà occidentale è oppressiva in maniera unica, specialmente verso le donne e la “gente di colore”, e i suoi prodotti sono spiritualmente inferiori a quelli delle culture non-occidentali;
• le credenze religiose tradizionali, specialmente quelle cristiane, si fondano sull’ignoranza dei moderni sviluppi scientifici e oggi non possono più essere razionalmente giustificate, basandosi solo su illusioni o pii desideri;
• gli scrupoli morali tradizionali, riguardanti specialmente il sesso, si basano anch’essi sulla superstizione e sull’ignoranza e non hanno alcun fondamento razionale; e così via di questo passo.

Ciascuna di queste affermazioni è a mio avviso falsa, in alcuni casi in maniera dimostrabile. In ogni caso, il punto di vista opposto può essere difeso, ed è stato difeso potentemente, da pensatori di valore non inferiore a quelli di sinistra. Tuttavia è molto raro sentire nelle moderne università qualcuno che sfidi seriamente le affermazioni sopra riportate. Queste vengono di solito accettate come talmente ovvie da far credere che ogni visione contrastante sia motivata da ignoranza o interesse personale, e come tale da respingere immediatamente; oppure si ritiene che non vi siano delle opinioni diverse che meritino la fatica di essere prese in considerazione. I grandi pensatori del passato che difendevano opinioni opposte alle loro vengono trattati come reperti archeologici, e i loro argomenti vengono presentati in forma caricaturale al solo scopo di ridicolizzarli; i pensatori del presente che difendono queste idee, quando non sono totalmente ignorati, vengono anch’essi presentati come macchiette, per poi essere consegnati all’oblio. Visitando un moderno campus universitario si sente ripetere il mantra della “diversità” tante di quelle volte, che viene voglia di urlare basta. L’unica diversità che non si incontrerà mai è quella che più conta in un contesto accademico: la diversità di pensiero sulle più fondamentali questioni riguardanti la religione, la moralità e la politica.
Tutto questo naturalmente è risaputo, ed è stato documentato in studi come quello di Roger Kimball Tenured Radicals e di Alan Charles Kors e Harvey Silverglate The Shadow University. Quella che sorprende è la scarsissima attenzione prestata alla questione del perché l’università è caduta in pieno dominio della sinistra. Questa è la questione che voglio affrontare. Sono state proposte numerose teorie, e non vi è dubbio che molte di esse contengono parte della verità. Ma nessuna, mi pare, ha centrato il cuore del problema; e certamente nessuna di esse è ampiamente conosciuta o accettata. Il presente saggio esaminerà le teorie che sono state proposte fino ad oggi, e indicherà (quelle che io ritengo) le loro più chiare mancanze. Nella seconda parte cercherò di sviluppare una spiegazione più adeguata.

La sinistra ha ragione?

Una teoria che penso possa essere scartata senza indugi, proprio come le idee di centro-destra vengono di solito scartate dalla maggior parte dei docenti, è quella secondo cui le visioni di sinistra come quelle viste in precedenza sono semplicemente corrette, e che il tipico accademico, essendo (così si ritiene) più intelligente delle altre persone, riesce a vederlo più facilmente degli altri. Non giudico errata questa teoria solo perché, personalmente, non condivo quelle idee. È un’ingenuità infatti supporre a priori che l’opinione maggioritaria dei professori universitari o delle persone intelligenti in generale rifletta più fedelmente la realtà dell’opinione dell’uomo comune, soprattutto quando si tratta di questioni pratiche. Per quanto controintuitivo possa sembrare, vi sono profonde ragioni filosofiche in grado di spiegarlo, che esploreremo. Per adesso è sufficiente osservare che esistono dei chiari esempi contrari all’opinione che l’opinione accademica sia una guida affidabile per arrivare alla verità: la più evidente delle quali è la popolarità del socialismo, come dottrina economica, tra gli intellettuali del 19° e 20° secolo.
Il socialismo come generica visione morale è, a dir la verità, ancora molto vivo tra gli intellettuali contemporanei; ma al di fuori delle discipline accademiche di poco conto, in particolare quelle completamente sprovviste di verifica empirica o rigore teorico (teoria della letteratura contemporanea, moltissimi corsi di sociologia e la maggior parte dell’attività svolta in maniera estremamente politicizzata nei dipartimenti di studi etnici e femminili), nessuno prende più l’economia socialista sul serio. Non che gli intellettuali siano diventati più intelligenti: è stata piuttosto la fredda e dura realtà a falsificare la dottrina economica socialista in maniera così decisiva, che perfino coloro che vivono chiusi nella torre d’avorio ne hanno avuto qualche notizia.
Ma  il punto è questo  è scandaloso che siano dovuti passare ben settant’anni di esperimenti da incubo nel mondo reale perché il socialismo allentasse la sua presa tra l’intelligentsia, anche perché gli argomenti teorici a favore dell’economia socialista non sono mai stati neanche lontanamente decisivi, fin dall’inizio. Come costruzione teorica funzionante il socialismo non ha mai avuto molto da dire, ed è sempre stato più un sentimento o un bluff che un’analisi seria e rigorosa: un modo di esprimere la propria disapprovazione del capitalismo piuttosto che una realistica alternativa.
Perdipiù i critici del socialismo hanno sempre predetto la tirannia e l’inefficienza economica che avrebbe mostrato una volta applicato, sulla base non solo del senso comune (che già sarebbe stato sufficiente) ma anche di una teoria sofisticata, comprendente gli argomenti di Mises e Hayek, che già all’inizio degli anni Venti avevano presentato obiezioni così potenti che è difficile vedere come una persona onesta potesse ancora considerare automaticamente il socialismo come una posizione politica ed economica razionale.
In breve, se veramente le sole considerazioni intellettuali, spassionatamente valutate, fossero state le principali motivazioni che hanno spinto gli intellettuali ad abbracciare il socialismo, questo avrebbe rappresentato una visione di minoranza già parecchi decenni prima della caduta del comunismo. Si tratta di un vivido esempio di come le mode e le emozioni possano, a detrimento della fredda analisi, far presa sulla mente degli intellettuali non diversamente che sugli uomini “comuni”  sebbene in questo caso abbiamo a che fare con mode ed emozioni che (per ragioni che vedremo) hanno più attrattiva sugli intellettuali che sulle altre persone.

Altre spiegazioni

Ci sono però, come ho detto, delle spiegazioni più promettenti del fenomeno in discussione, che voglio ora affrontare una alla volta. La prima potrebbe essere chiamata:

1. La “teoria della sopravvivenza del più a sinistra”. L’idea sarebbe che i professori universitari, a dispetto delle chiacchere sulla diversità, tendono a circondarsi di colleghi che la pensino ampiamente come loro in questioni di politica, moralità e cultura. Poiché i professori tendono ad essere di sinistra, quelli nettamente di destra tenderanno ad essere eliminati dalla “selezione” quando si devono decidere assunzioni e assegnazioni di cattedre. Non c’è dubbio che le cose stiano in larga parte così.
Il problema di questa teoria è che spiega al massimo come un professore sinistroide diventi tale una volta che il numero degli accademici di sinistra raggiunga una massa critica, e come successivamente conservi la propria posizione. Ma perché mai dovrebbe formarsi questa massa critica? E perché non ci sono significative forze conservatrici riequilibratici capaci potenzialmente di invertire la traiettoria, o quantomeno di mantenere un equilibrio ideologico? Sembrerebbe che ci sia qualcosa nella natura stessa della professione che inclini i suoi rappresentanti verso sinistra. È questo che sostengono le altre teorie che sono state suggerite, come ad esempio:

2. La teoria della “società come classe scolastica”. Robert Nozick, nel suo saggio “Perché gli intellettuali si oppongono al capitalismo?”, suggerisce che la spiegazione che stiamo cercando possa essere rinvenuta negli anni formativi dell’intellettuale medio. Questi rappresenta quel genere di persona che, a scuola, va bene sul piano intellettuale ma non altrettanto sul piano sociale. Egli cioè viene ricompensato per il modo esemplare con cui si conforma alle direttive dell’autorità centrale (l’insegnante) che applica un piano completo e dettagliato (il programma di studi) entro un sistema sociale irreggimentato (la classe scolastica); ma non viene remunerato allo stesso modo per i contributi che cerca di offrire alla sfera decentralizzata e non pianificata delle interazioni volontarie che costituiscono la vita di una persona giovane fuori dalla classe (le attività sportive, le feste, le relazioni con l’altro sesso e così via). Così egli tende naturalmente a pensare che lo scenario del primo tipo sia più ragionevole e giusto del secondo, e generalizzando (forse inconsciamente) a livello della società nel suo intero, tenderà conformemente a favorire le politiche che comportano la pianificazione centralizzata delle autorità governative piuttosto che i risultati non pianificati della libera interazione dei cittadini nel mercato. Simile alla teoria di Nozick è:

3. La teoria del risentimento. Non solo negli anni della loro formazione, ma anche durante la loro vita lavorativa gli intellettuali tendono a vedersi trattati ingiustamente dai loro coetanei. Come Ludwig von Mises ha sottolineato nel libro La mentalità anticapitalistica, gli intellettuali provano risentimento per i più elevati guadagni monetari che nella società capitalista accumulano gli uomini d’affari, gli atleti e gli uomini di spettacolo  quello stesso genere di persone, si noti, che in gioventù erano più popolari dei secchioni imbranati sui campi da gioco e alle feste  pur considerando la propria meno lucrativa occupazione di gran lunga più importante. Se l’ultimo album del cantante Diddy vende milioni di copie mentre la magistrale storia del Liechentstein in cinque volumi del professor Doddy vende precisamente centosei copie, tutte acquistate da biblioteche universitarie, il professor Doddy inizia a domandarsi se il libero mercato rappresenti il sistema più equo per distribuire le ricompense economiche.
Naturalmente si può preferire Doddy a Diddy e tuttavia non ritenere ingiusto che i propri concittadini siano di parere diverso. Questo ci porta però a:

4. La teoria del “filosofo-re”. È probabile che molte volte l’intellettuale veda il mancato apprezzamento del proprio lavoro come un’ingiustizia non solo nei propri confronti, ma anche verso gli altri: in altre parole, chi non preferisce l’opera degli intellettuali sarebbe responsabile anche di un grave danno nei confronti di se stesso, e lo stesso vale per la società che si rende complice e favorisce queste sciatte abitudini intellettuali (o d’altro tipo). Per il loro stesso bene, quindi, agli individui non dovrebbe essere lasciata molta libertà di scelta, e gli esperti nel gestire gli affari umani dovrebbero trovarsi a dirigere le loro vite al posto loro. L’intellettuale, fantasticando di essere egli stesso un tale esperto, si offrirebbe altruisticamente come volontario per svolgere questo compito.
Qui siamo effettivamente in presenza dell’ideale del “filosofo-re”, e con esso di un’altra possibile spiegazione del perché gli intellettuali tendano a sinistra: la prospettiva che l’incremento del potere statale gli possa fornire maggiori opportunità per applicare la proprie idee. Come F.A. Hayek suggerisce nel suo saggio “Gli intellettuali e il socialismo”, per l’intellettuale medio è del tutto ragionevole l’idea che le persone più intelligenti dovrebbero essere le uniche a dirigere tutto. Naturalmente questo dà per scontato che loro siano in generale capaci di gestire le cose meglio degli altri: un assunto che stranamente queste menti cosiddette indagatrici non sembrano disposte a mettere in questione. Eppure ci sono ragioni molto valide per dubitarne, alcune delle quali collegate al fallimento del socialismo prima discusso.
Come lo stesso Hayek ha notoriamente sostenuto, le istituzioni sociali su larga scala sono semplicemente troppo complesse perché qualsiasi mente umana, intelligente che sia, possa afferrare l’ammontare dei dettagli necessari per crearle dal nulla o ridisegnarle dall’alto in basso, alla maniera dei pianificatori economici socialisti o dei rivoluzionari politici o culturali. Il collasso della Rivoluzione francese in un caos sanguinario, il suo immediato seguito napoleonico, la lunga decadenza e l’improvviso collasso dell’impero sovietico, e in generale quella follia istituzionalizzata che è stato il comunismo sono solo le più nitide e innegabili conferme di questa fondamentale osservazione.
L’intellettuale quindi si trastulla sempre con l’idea che le cose andrebbero molto meglio se solo tutti seguissero la visione del mondo che lui e i suoi colleghi hanno discusso nella caffetteria dell’università o nelle riviste accademiche. Come ha scritto Hayek ne La presunzione fatale, “le persone intelligenti tenderanno a sopravvalutare l’intelligenza”, e troveranno perfino scandalosa l’idea che l’intelligenza sia qualcosa che possa essere sopravvalutata. La cosa è invece del tutto possibile, dato che anche l’intelligenza dell’essere umano più brillante ha dei limiti. Riconoscerlo richiede niente di più e niente di meno che una semplice dose d’umiltà  una virtù che generalmente scarseggia tra gli intellettuali, specialmente se hanno compiuto grandi realizzazioni intellettuali.
Pur mancando di umiltà, alla fine l’intellettuale, essendo un pensatore critico di professione, non dovrebbe arrivare a vedere le fredde e dure dimostrazioni della propria estrema inefficacia come pianificatore sociale? Non necessariamente, almeno se sosteniamo:

5. La teoria della “testa fra le nuvole”. Questa è probabilmente la teoria favorita dal non-intellettuale medio: per quanto intelligenti possano essere nelle materie astratte e teoriche, nelle questioni pratiche i professori e gli altri intellettuali sono considerati del tutto privi di buon senso e saggezza quotidiana: non sono cioè “in contatto” con il mondo reale. E poiché gli ideali di sinistra sono paradigmaticamente contrari al senso comune e scollegati dalla realtà, non c’è da sorprendersi che gli intellettuali siano attratti da essi. Questa teoria ha sicuramente dei meriti considerevoli, dato che perfino i pensatori più empiricamente orientati tendono inevitabilmente ad enfatizzare la costruzione di modelli teorici, la cui costruzione e articolazione può richiedere sforzi notevoli, e dai quali può dipendere il successo della reputazione professionale. Gli intellettuali sono quindi comprensibilmente poco inclini a abbandonare questi loro modelli e spesso, almeno inconsciamente, preferiscono la teoria ai fatti quando questi sembrano confliggervi.
Vi è anche la considerazione che il professore di college agisce, nella sua vita d’ogni giorno, in un ambiente in gran parte artificiale. L’assurda fede nelle Nazioni Unite, ad esempio, o la tendenza a flirtare con il pacifismo, diventa meno misteriosa quando si tiene conto del modo in cui costoro sono abituati a risolvere i disaccordi: non con la forza o con l’appello all’interesse personale dell’avversario, ma attraverso dibattiti e discussioni elevate e quasi interminabili in aula, nelle conferenze accademiche o sulle riviste, nel tentativo di persuadere e far comprendere. Gli sembra quindi facile credere che le dispute con dittatori del Terzo Mondo, terroristi o altri delinquenti possano essere risolte se solo “ci mettessimo a discuterne attorno ad un tavolo”. Dopo tutto, le persone con cui tratta ogni giorno tendono ad essere condiscendenti quanto lui a queste civilizzate forme di persuasione. Perché allora non dovrebbe essere così per tutti, almeno nel profondo?
L’accademico medio vive anche in maniera piuttosto confortevole, per quante lamentele possa esprimere verso i supposti immeritati alti guadagni degli uomini d’affari o di spettacolo. Ha la possibilità di insegnare in due o tre corsi a semestre, presentarsi al lavoro solo tre giorni alla settimana e avere tutta l’estate libera (e perfino i cinque o più corsi part-time che deve tenere spostandosi in autostrada da un campus all’altro non sono paragonabili al lavoro di chi frigge le patate). Se ha una cattedra egli ottiene anche una buona assistenza medica e altri benefici, un occasionale anno sabbatico e la sicurezza del lavoro a vita. Gli sembra facile pensare che tutti potrebbero vivere in quel modo, se solo le tasse fossero elevate nella giusta misura o se fossero approvate le giuste regolamentazioni. Non gli capita mai di pensare, a meno che non sia un economista (ma a volte neanche in questi casi), che le specifiche forze economiche che rendono possibile la sua vita confortevole sono isolate, molto peculiari, artificiali e parassitarie rispetto ad un più vasto ordine economico che verrebbe completamente distrutto se lo Stato cercasse di imporre a tutti gli stessi standard di vita dei professori universitari. Né in genere ha alcuna famigliarità con le circostanze della vita reale e le pressioni che gravano sugli uomini d’affari. Che questi ultimi preferiscano probabilmente ascoltare i talk show radiofonici anziché programmi culturali, o leggere il Readers’s Digest invece del The New York Review of Books è sufficiente, nella mente dell’intellettuale, a escluderli dalla sua sfera di simpatie. Perdipiù, non è che l’intellettuale non sappia nulla del mondo degli affari: dopotutto, ha letto Dickens e Morte di un commesso viaggiatore. Cos’altro gli si potrebbe chiedere di più?
Infine perfino il peggior insegnante dispone di quello che gli uomini di spettacolo, gli atleti, i venditori e coloro verso cui spesso prova risentimento desidererebbero ardentemente: una platea costretta ad ascoltare, piena di gente giovane, ignorante e ingenua che lo crede infallibile. È naturale che questo possa dare alla testa e condurre a manie di grandezza. Il professore si guadagna da vivere dando lezioni alle persone, la maggior parte delle quali lo considerano molto intelligente. Chi potrebbe allora essere più qualificato a dare lezioni alla società nel suo complesso? E se è fortunato a far breccia con le sue idee tra gli uomini politici e il pubblico, è improbabile che sia chiamato a pagare quando si rivelano sbagliate. Le predizioni apocalittiche ripetutamente falsificate hanno reso molti predicatori fondamentalisti oggetto di derisione; ma hanno fatto dell’eco-allarmista della Stanford University Paul Erlich il vincitore del MacArthur Foundation Genius Grant. Le teste d’uovo che ci hanno dato le riforme assistenziali della Great Society hanno inavvertitamente creato un’intera sottoclasse: da allora milioni di bambini sono cresciuti senza padri negli ultimi decenni, ma le teste d’uovo hanno mantenuto le loro cattedre. La persona media sarebbe stata licenziata o gettata in galera per una tale incompetenza; all’intellettuale gli viene solo consigliato di aggiungere una nuova postfazione alla nuova edizione del suo libro.
Ci si può attendere che gli intellettuali, avendo un sistema di vita così comodo, facciano tutto ciò che è in loro potere per preservare le loro esistenze viziate. Questo ci porta a:

6. La teoria dell’interesse di classe. Questa era la teoria preferita da Murray Rothbard, che si divertiva a rivoltare le tattiche marxistoidi contro coloro che usualmente ne facevano uso. Secondo questa teoria la classe dei professori, una volta messa da parte la calcolata ipocrisia del noblesse oblige, non è affatto la disinteressata Educatrice del Popolo come ama presentarsi. È solo un altro meschino gruppo di pressione, che lotta con gli altri animali nella giungla del welfare state per arrivare al capezzolo del governo. Avendo maggiori capacità di articolare le parole, riesce più facilmente a mascherare i propri reali motivi, presentandoli sotto una veste attraente per i propri padroni: si presenta infatti come un nuovo ceto sacerdotale, la cui religione socialista offre allo Stato una giustificazione per la sua esistenza in cambio di un’occupazione permanente nelle fabbriche statali della propaganda (scuole “pubbliche” e università), e dell’opportunità di elaborare a tavolino i piani che i funzionari statali applicheranno.
Il sinistrismo degli intellettuali è così facilmente comprensibile, dato che si tratta precisamente dell’ideologia che ognuno si aspetterebbe dalla classe dei cortigiani di Stato. Non vi è ragione di dubitare che gli intellettuali  che in fin dei conti respirano come gli altri uomini  siano capaci come tutti di razionalizzare il proprio interesse personale. Di fatto, è molto profittevole per un intellettuale sostenere le politiche di sinistra, dato che queste richiedono inevitabilmente programmi di lavoro per gli “esperti”, cioè per gli intellettuali stessi.
Come tutte le spiegazioni ispirate dalla teoria marxista dell’ideologia, anche questa non deve però essere esagerata; nessun conservatore dovrebbe emulare la volgare inclinazione dei marxisti a respingere istintivamente tutti i punti di vista opposti al proprio usando argomenti ad hominem.

Ma c’è dell’altro

Sono dunque pochi gli intellettuali che hanno rivolto la loro attenzione all’argomento che stiamo affrontando. Che queste teorie abbiamo molto da dire è, a mio avviso, evidente appena uno le consideri. Tuttavia mi sembra che, anche se prese insieme, non arrivino a spiegare tutta la questione. Nessuna di esse infatti tiene conto di una particolare caratteristica delle concezioni adottate da quasi tutti gli intellettuali di sinistra: la loro deliberata perversità, cioè il fatto che non solo differiscono dal senso comune, ma lo dileggiano apertamente. La “teoria della testa fra le nuvole” ci porta a considerare gli intellettuali come degli eccentrici, ma non come dei folli. E tuttavia che cos’è, se non una forma di follia, il credere ad esempio che le pene non abbiano alcuna efficacia dissuasiva, che la libertà sia possibile anche senza proprietà privata o che le differenze psicologiche e comportamentali tra maschio e femmina non abbiano alcuna base biologica? È vero che ci sono molti intellettuali, anche di sinistra, che non credono a queste teorie. Ma sono molti di più quelli che vi credono e, soprattutto, fa parte dell’essenza della moderna vita intellettuale considerare come “meritevoli di discussione” queste idee e altre ancor più bizzarre: ad esempio che il matrimonio sia paragonabile allo stupro e che i rapporti sessuali siano manifestazioni di disprezzo per la donna (Andrea Dworkin), che il comunismo sovietico sarebbe ben valso l’assassinio di venti milioni di persone se avesse funzionato (Eric Hobsbawn) o che le espressioni della civiltà greca siano state “rubate” all’Africa (Martin Bernal). Agli sproloqui di più bassa lega viene data la massima considerazione, mentre il senso comune e la tradizione vengono respinti senza neanche essere presi in considerazione. Per quale motivo?
Il mistero si infittisce ancora di più se consideriamo che per secoli se non per millenni la vita intellettuale non è stata così. Un tempo le concezioni politiche e morali più influenti tra gli intellettuali occidentali, anche quando sbagliate, erano vicine alla realtà e al senso comune: l’aristotelismo che ha dominato la vita intellettuale durante il Medioevo è l’esempio più evidente. Naturalmente ci sono sempre stati degli eccentrici, ma la perversione teorizzata nelle questioni pratiche è un fenomeno largamente moderno. Difatti, essa è diventata la norma della modernità solo molto recentemente: in particolare con l’attacco frontale alle idee ricevute sulla natura umana e la società portato da pensatori del tardo diciannovesimo e primo ventesimo secolo come Darwin, Marx, Nietszsche e Freud.
Il lettore accorto avrà notato che, per come ho descritto la situazione, l’era del senso comune coincide con l’Età della Fede medievale, mentre i pensatori citati come gli araldi dell’era della perversione sono i grandi rappresentanti del moderno ateismo, una sorta di Quattro Cavalieri dell’Apocalisse secolare. Qui, io credo, sta la risposta al nostro enigma. Così come le grandi menti del Medioevo ritenevano che la loro missione fosse quella di sostenere una visione religiosa del mondo, lo stesso a mio avviso vale per gli intellettuali moderni. Da questo punto di vista Rothbard, alla sua cruda maniera, era il più vicino alla verità: la moderna classe degli intellettuali può essere meglio compresa come una sorta di classe sacerdotale, la cui religione è il sinistrismo. Svilupperò questo tema nella seconda parte dell’articolo.

(Edward Feser è Visiting Assistant Professor of Philosophy alla Loyola Marymount University of Los Angeles)

(Traduzione di Guglielmo Piombini)

http://www.futureshock-online.info/index.html

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Don Verzè: ha già perdonato l’aggressore. È tempo di cambiare la Costituzione

Posted by Controrivoluzione su dicembre 15, 2009

«Questo clima è anche colpa della caccia all’uomo da parte dei magistrati»

Don Verzé, Berlusconi è qui nel suo ospedale. Come l’ha trovato?
«Fisicamente, in ripresa. Psicologica­mente, umiliato, terrorizzato. Non tan­to per il dolore, quanto per aver prova­to sul suo corpo l’odio».

Quando ha saputo?
«Appena è successo. Mi ha avvisato il suo medico, Alberto Zangrillo. Ma non sono andato subito al San Raffaele. In questi casi ci vogliono calma, tran­quillità. E anche solitudine. Attorno a Berlusconi c’erano i nostri medici mi­gliori, e loro bastavano. Hanno fatto la Tac, per escludere danni cerebrali. Poi gli altri esami. Solo dopo abbiamo fatto entrare il fratello e i figli».

E lei?
«Io sono andato stamattina (lunedì, nda). Era giusto lasciargli un po’ di tem­po. Quando accade una cosa del gene­re, quando si rischia la vita, ci si ritrova come sospesi tra Dio e il mondo. Soprat­tutto se si è uomini della statura di Ber­lusconi».

Perché parla di un Berlusconi «ter­rorizzato»?
«Il problema non è lui. Lui si è già ripreso, la forte emozione che ha prova­to è già alle spalle. L’ho rivisto all’ora di pranzo, e il suo ottimismo aveva già preso il sopravvento. Anch’io sono un ottimista; ma perché ho novant’anni, e mi sento ormai nelle braccia di Gesù Cristo. Berlusconi è più ottimista di me. Il problema è l’odio. Questo episo­dio è anche un monito. Il segno che è davvero il tempo di cambiare la Costitu­zione».

Perché? E in che modo, secondo lei?
«Non tocca a me dirlo. Tocca ai politi­ci: l’ho detto a Berlusconi e agli altri che ho visto oggi, Fini e Bersani».

Come ha trovato Fini?
«Freddo. Forse perché l’ho visto per strada».

E Bersani?
«Caloroso. Sinceramente dispiaciu­to. Bersani è una gran brava persona. Ci siamo anche dati un bacio. Certo, ha da governare una gabbia di tigri e leo­ni».

Di Pietro dice che Berlusconi ha isti­gato all’odio. Anche la Bindi, con toni diversi, sostiene che il premier ha le sue responsabilità per il clima che si è creato.
«Sono loro ad aizzare all’odio, ad aver ispirato il gesto di quel povero dia­volo».

È giusto dare più poteri al presiden­te del Consiglio?
«Se ne occupino gli addetti ai lavori. Dico soltanto come cambierei l’articolo 1: l’Italia è una repubblica fondata non solo sul lavoro, ma anche sulla cultura; la politica divide, la cultura unisce. Quanto è accaduto è frutto di un’assolu­ta mancanza di cultura. Di rispetto. Di conoscenza dell’altro. Berlusconi mi ha detto: ‘Perché a me? Perché mi odiano tanto, al punto da volermi ammazzare? Io voglio il bene del Paese, il bene di tutti. Tu don Luigi lo sai che è così. Perché non se ne rendono conto?’».

È davvero così, don Lui­gi?
«Certo. Io conosco bene Berlusconi. È un uomo di fi­ducia e di fede. Conosce il vero insegnamento di Ge­sù: ‘Amatevi l’un l’altro co­me io ho amato voi’. Berlu­sconi ama tutti, anche i suoi nemici. È incapace di pensie­ri o parole cattivi».

Una volta definì «coglio­ni » gli italiani che non vo­tavano per lui.
«Ma anch’io ne dico di tutti i colori alle persone che lavorano con me. Però loro non se la prendono. Perché, come Berlusconi, parlo con il sorriso sulle lab­bra; e loro sono indotti a sorridere».

Anche la magistratura, secondo lei, ha contribuito a creare questo clima?
«È chiaro che è così. Questo è il vero motivo per cui occorre ritoccare la Co­stituzione. Anche la caccia all’uomo giu­diziaria ha creato il contesto in cui è sta­ta possibile l’aggressione. La magistra­tura dev’essere ricondotta al suo ruolo. Che è al di sopra e al di fuori della politi­ca. I magistrati non devono fare politi­ca; sarebbe come se il Papa o la Chiesa pretendessero di farla».

Lei sa che diranno che Berlusconi e i suoi intendono approfittare della cir­costanza.
«So quel che diranno. Non si rendo­no conto del pericolo che incombe sul Paese, del clima che si respira, della gra­vità di quanto è accaduto. Non si rendo­no conto che Berlusconi ama l’Italia, ed è per questo, non per i suoi interessi, che è sceso in campo, mettendo in gio­co tutto se stesso, anima e corpo, anche a rischio della propria salute. Anche a rischio della propria vita, come si è vi­sto. Io gliel’ho detto: ‘Ricordati che sei una persona ricca’. Ma lui non si tira mai indietro. Poi, certo, non è un ange­lo del cielo. È un uomo. Un uomo sano e vitale. Può commettere errori. Come me, come lei. Per fortuna il San Raffaele è il suo angelo custode; e io sono il cu­stode del suo angelo custode».

Perdonerà il suo feritore?
«L’ha già perdonato. Non mi stupirei che chiedesse di incontrarlo».

Aldo Cazzullo
15 dicembre 2009

http://www.corriere.it/politica/09_dicembre_15/don-verze-ha-gia-perdonato-l-aggressore-tempo-di-cambiare-la-costituzione-Aldo-Cazzullo_936bd7c2-e942-11de-ad79-00144f02aabc.shtml

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«I frutti dell’odio» di Paolo Deotto

Posted by Controrivoluzione su dicembre 14, 2009

Complimenti, signori sepolcri imbiancati, sinistrati dei salotti-chic, rivoluzionari in servizio permanente effettivo. La vostra campagna di odio dissennato contro Berlusconi incomincia a dare i suoi frutti. Complimenti Vate Scalfari, complimenti Di Pietro, leader degli imbecilli esagitati, complimenti a tutta una sinistra che, non avendo assolutamente nulla da dire, si è ormai dedicata con pervicacia paranoica alla distruzione del Capo del Governo.
Avete già ottenuto un primo tangibile risultato. Un cretino, in tutto uguale agli altri, ma degli altri un po’ più cretino (pare sia in cura da anni per problemi mentali), oggi ha aggredito in piazza Duomo, al termine di un comizio, Silvio Berlusconi, ferendolo al volto. Per fortuna pare – dalle prime notizie – che non si tratti di nulla di grave, ma il gesto è di una gravità enorme, perchè grazie a voi, manica di irresponsabili gorgogliatori di idiozie, che non avete il cervello per capire che un uomo vi ha battuto, che è più popolare di voi, che siete ormai delle anticaglie, grazie a voi, che avete creato un clima di martellante ossessione e di odio, un demente si sente spinto e giustificato ad aggredire.
Sappiamo già come la “buona stampa”, Espresso e Repubblica in prima linea, scriveranno del fatto. Certo, tutti deprecheranno la violenza, però… Sappiamo già quale sarà il commento di quell’acefalo di Santoro, che deprecherà la violenza, però…
Vi basta prendere ispirazione da quanto ha dichiarato “a caldo” Di Pietro: “io sono contro la violenza, però il premier istiga”. Avete capito? E’ così semplice. Berlusconi commette il crimine di esistere, di essere stato votato dalla maggioranza degli italiani, di fare il Capo del Governo. Quindi, a ben guardare, la colpa è sua. Già, perchè l’aggressore, a poco a poco, diverrà, da cretino istigato dall’odio che voi avete seminato, un povero cittadino spinto dalla deprecabile e fosca figura di Berlusconi a compiere un gesto sconsiderato. Sarà meritevole perciò di comprensione, e sarà interessante ora vedere cosa farà quella magistratura che è inflessibile custode della legge, assolutamente imparziale e rispettosa degli altri poteri dello Stato.
Quanti giorni serviranno per scarcerare l’aggressore? Due, tre, o anche meno. In fondo, mica lo ha ammazzato… quindi, che male ha fatto?
Per Di Pietro proponevamo giorni fa una cura di aloperidolo. Ci siamo sbagliati. Un individuo di tal fatta merita solo di essere preso a calci nel sedere, a due a due finché diventan dispari, e tornare al suo lavoro nei campi.
Complimenti, un primo passo l’avete fatto. Del resto, vantate già un’esperienza in materia. Molti di voi avevano già partecipato a suo tempo, al linciaggio morale del Commissario Calabresi, con il bel risultato di eccitare le menti deboli e spingerle ad uccidere quel poliziotto onesto ed esemplare. Già, perchè siete anche vigliacchi, siete tanti Beppini Englari. Non avete il coraggio di fare direttamente ciò che desiderate, ma dai vostri salotti teorizzate l’odio come soluzione ai problemi nazionali, come copertura alla vostra inesistenza intellettuale e politica. Poi sapete bene che le conseguenze arrivano. Guardando sotto ai tacchi delle vostre scarpe di lusso, si può scorgere il vostro livello morale, che è quello leninista: “calunniate, calunniate, qualcosa resterà…”
Dimenticavo: si potrebbe anche opinare che l’aggressore sia stato pagato dallo stesso Berlusconi, per poter scatenare una violenta repressione e instaurare finalmente in Italia il regime dittatoriale. Ma qui non voglio esagerare rubandovi il mestiere. Già, perchè oltre che maestri di odio, siete anche insuperabili specialisti di menzogna.
Buon lavoro. Ne avrete tanto da fare. E intanto il miasma di fogna ammorba sempre di più il nostro Bel Paese. Andate a lavarvi le coscienze, sarà un affare lungo e difficile, ma è anche l’unico rimedio.

Fonte:
http://www.lariscossacristiana.com/

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La cultura non è solo di sinistra. Ma la destra non vuole capirlo (Il Giornale, lunedì 12 ottobre 2009)

Posted by Controrivoluzione su ottobre 12, 2009

La cultura non è solo di sinistra
Ma la destra non vuole capirlo

di Gianfranco de Turris

I conservatori soffrono della sindrome di Stoccolma verso un intellighentia che da decenni coltiva la sua egemonia. Temono di apparire scorretti

Il ministro Bondi, in vari suoi interventi sulla stampa, ha sempre sottolineato di avere una concezione «liberale» della cultura, di non aspirare a nessuna «egemonia», come era stato per il Pci e la Sinistra in genere nei decenni passati, di non voler fare alcuna «epurazione». Però è anche costretto ad ammettere che oggi, pur essendo la «cultura di sinistra» in profonda crisi, essa è rimasta una «tecnica di gestione del potere» (Corriere della Sera, 16 settembre). In altri termini, le sue idee sono sempre più confuse e superate, ma la Sinistra ha i suoi uomini ancora insediati nei posti decisionali e negli snodi più importanti della «gestione del potere» culturale. Non è difficile capirlo dopo mezzo secolo di occupazione e di stratificazione anche semplicemente burocratica, ma sta di fatto che in ministeri e assessorati, editori e riviste, giornali e case cinematografiche, televisioni e università, gli uomini della sinistra, siano essi intellettuali o semplicemente personaggi d’apparato, stanno ancora lì inamovibili a decidere, giudicare, escludere, sanzionare, filtrare, bloccare, così indirizzando la cultura italiana in una certa direzione e sbarrando il passo a chi la pensa diversamente, condizionando alla fine una certa parte dell’opinione pubblica.

Con tutto il rispetto per il ministro Bondi e la sua visione liberale, occorrerebbe fare come invece dice Marcello Veneziani : «Tentare una strategia di conquista civile e culturale delle posizioni chiave, o quantomeno una presenza bilanciata, che apra alle culture plurali del Paese» (Il Giornale, 21 settembre). E una simile operazione potrebbe partire, aggiungo, dalla periferia per raggiungere man mano il centro: da paesi, cittadine e città dove, sempre di più, gli assessorati alla cultura e simili passano nelle mani dei rappresentanti del centrodestra. Non sarebbe un’operazione difficile se non imperversasse quella che è stata chiamata «la sindrome culturale di Stoccolma». Come i sequestrati di Stoccolma alla fine cedettero psicologicamente e passarono dalla parte dei rapitori sino al punto di innamorarsene, così, a quanto pare, sta accadendo ai «gestori della cultura» di centrodestra che hanno raggiunto posizioni di responsabilità nei confronti della cultura dei loro «avversari».
È quanto mi è capitato di constatare di recente andando in giro per varie conferenze. Non potevo credere a quanto mi veniva raccontato: e cioè di assessori soprattutto ex An paralizzati e resi impotenti dalla paura di prendere decisioni, per le quali si correva il rischio di venir accusati di essere di destra o ancor peggio fascisti da parte delle opposizioni comunali ovviamente di sinistra. Non si può organizzare una conferenza con quel personaggio o per quel libro; non si può proiettare quel film; non si può organizzare quella mostra; non si può ricordare quell’anniversario; non si può finanziare quella biblioteca o restaurare quella collezione di giornali; non si può mettere quella targa o renderla leggibile; non si può organizzare un concerto di quel gruppo musicale… Non si può proprio, scusate: altrimenti cosa dirà l’opposizione? Cosa scriveranno le pagine locali della «grande stampa»? Che accuse ci lanceranno le sinistre? E se magari si mobilitassero i centri sociali? Sono sequestrati dai progressisti e succubi, e ormai quasi innamorati, dalla loro cultura.
La lezione di coraggio e anticonformismo dello sfortunato Marzio Tremaglia, assessore alla cultura della Regione Lombardia scomparso nel 2000, l’hanno appresa purtroppo in pochissimi: non possiamo non citare Massimo Greco a Trieste e Carlo Sburlati ad Acqui Terme, che vanno avanti con iniziative non certo di parte ma di certo politicamente scorrette e di certo indirizzate a mettere in evidenza quella «presenza bilanciata che apra alle culture plurali del Paese» di cui parlava Veneziani. È così che si fa, non ci si nasconde dietro un dito, che nel nostro caso è quel famigerato trinomio «laico democratico antifascista» che all’epoca del demitiano «arco costituzionale» mise fuori gioco il Msi, ma che oggi è tanto di moda nella corrente aennina del Pdl.

C’è da chiedersi, dunque, il perché di questa sindrome che condiziona molti assessori alla cultura del centrodestra, che fa loro accettare la cultura degli avversari ed abbracciare tutti i luoghi comuni e le parole d’ordine della Sinistra. Da cosa nasce questa incultura generalizzata, questo vero e proprio rinnegamento di una «visione del mondo», se non un taglio alle radici di appartenenza?
Considerando i fatti che ho conosciuto penso che la risposta sia sociologico-politica e si riferisca alla involuzione del Msi-An: gli assessori alla cultura locali sono ormai quasi tutti dei giovani fra i 30 e i 40 anni che quindi sono cresciuti fisicamente e si sono svezzati culturalmente dopo il passaggio delle acque a Fiuggi, or sono quindici anni. Il clima unanimistico (nei fatti, anche se non in teoria) creatosi intorno all’allora segretario del partito, le sue svolte o «strappi» imposti dall’alto, le sue oscillanti e nebulose posizioni culturali, hanno creato a poco a poco una specie di «pensiero unico» che ha condizionato quelli che nel 1995 avevo 20-30 anni. Sicché, una volta approdati sugli scranni di assessore alla cultura di centinaia di città e cittadine italiane (per non parlare delle regioni) non hanno fatto altro che muoversi secondo la forma mentis cui erano stati abituati, tanto più che per raggiungere quel posto devono essere in genere (le poche eccezioni confermano la regola) uomini di apparato.

Il secondo punto è questo: se per caso l’assessore in questione fosse uno spirito indipendente e pensasse di operare in modo politicamente scorretto rispetto alle direttive del centro o dei vertici locali, c’è sempre il ricatto delle liste. Le liste per le elezioni amministrative le compila il coordinatore locale nominato da Roma, e se non ti adegui e vuoi fare culturalmente di testa tua ricevendo per di più le accuse di «fascista», e magari anche di «anticomunista», ledendo la nuova immagine del centrodestra in generale e degli ex An in particolare, sei messo fuori gioco. Soltanto chi è un esterno all’apparato e non fa il politico di professione perché ha già un proprio lavoro, può magari fregarsene di rientrare in lista. Ma ci vuole disinteresse e coraggio intellettuale.

Nel loro libro La destra nuova (Marsilio), due teorici finiani, Alessandro Campi e Angelo Mellone, nel delinearne il profilo fanno un elenco di tutto e del contrario di tutto, e a un certo punto scrivono – ed è questo che qui a noi interessa – che essa è «rispettosa delle proprie radici culturali, ma aperta alle sfide del futuro» (nelle tesi culturali di Fiuggi in sostanza era lo stesso, facendosi un ampio elenco di personalità di varia estrazione che però è stato poi dimenticato). Se fosse così non potremmo che sottoscrivere questa frase: ma così assolutamente non è, dati alla mano. La «destra nuova» non sembra avere più alcun aggancio col proprio passato culturale, che ha rinnegato quasi in blocco e di cui, ecco il punto cruciale, ha il terrore di affrontare o di occuparsene in qualche modo anche indiretto, perché teme di essere accusata di «fascismo».

Se dunque i rappresentanti ufficiali della cultura del centrodestra si comportano né più né meno come quelli di centrosinistra che li hanno preceduti sugli stessi scranni, ditemi voi l’elettore che differenza potrà mai fare su questo piano tra il prima e il dopo… E perché mai gli assessori di centrodestra a questo punto dovrebbero far riferimento ad altro se non a quello cui faceva riferimento il precedente centrosinistra? Ed è infatti quanto sta accadendo, non essendoci più soluzione di continuità, culturalmente parlando, fra certa sinistra e certa destra, mentre della famosa «discontinuità» non se ne vede l’ombra ed a gestire il potere culturale dietro le quinte, al di là della facciata destrorsa, c’è ancora e chissà sino a quando sempre lo stesso apparato burocratico e ideologico messo in piedi dalla famosa «egemonia» progressista. Che, però, come dice la «destra nuova» non è mai esistita ed è solo l’alibi dietro cui si nascondono certi «intellettuali lamentosi»… Vabbè, diciamo per farla contenta che non c’è stata, ma ora la sindrome culturale di Stoccolma del centrodestra fa ottenere alla Sinistra gli stessi, identici risultati!

http://www.ilgiornale.it/cultura/la_cultura_non_e_solo_sinistra_ma_destra_non_vuole_capirlo/12-10-2009/articolo-id=390096-page=0-comments=1

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ABBASSO IL RISORGIMENTO (Il Foglio, sabato 26/09/2009)

Posted by Controrivoluzione su settembre 26, 2009

Francesco Agnoli
ABBASSO IL RISORGIMENTO

Su IL FOGLIO di Sabato 26 settembre

“In vista delle celebrazoni per l’Unità d’Italia, una voce contromano spiega perché questo mito non s’ha da festeggirae. I misfatti di Cavour e Garibaldi”

Ammettiamolo: Garibaldi, Cavour, Mazzini non hanno fatto risrgere nulla. La storia degli stat preunitari è stata gloriosa

Si vole fare dell’Italia un paese liberale, nel senso borghese, dove contadini e operai non erano neppure considerati

Mentre i Savoia concepivano i loro sogni espansionistici, don Bosco e il Cottolengo si prendevano cura dei poveri piemontesi

“Il gattopardo” racconta bene il tentativo di comperare le lélite meridionali allo scopo di completare la piemontesissazione

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Il vero volto di Giordano Bruno

Posted by Controrivoluzione su giugno 18, 2009

Pietro Balàn
Il vero volto di Giordano Bruno

Centro librario Sodalitium, Verrua Savoia 2009
Euro 8,00
ISBN 978-88-89596-18-0

Nella seconda metà dell’800 e nei primi decenni del ’900 una schiera­ di battaglieri giornalisti e scrittori cattolici difese i diritti della Chiesa e le figure dei Sommi Pontefici dagli attacchi del ­laicismo massonico.
Tra questi combattenti per la causa papale spicca certamente la figura di monsignor Pietro Balan (Este 1840 – Pragatto di Crespellano 1893), “di spirito indomito, d’ingegno acuto e di vasta e nutrita cultura storica” (Enciclopedia Cattolica).
Dall’abilità della sua penna sono usciti numerosissimi scritti per rispondere alle sempre più numerose mistificazioni storiche con le quali i nemici della Chiesa stavano riscrivendo la storia. Mons. Balan, in particolare, mise in rilievo il legame indissolubile che lega l’Italia alla Fede predicata da san Pietro e dai suoi successori, rivendicando le ­glorie del passato cattolico della Penisola.
La sua erudizione sfociò nella stesura dei tre volumi della “Storia della Chiesa in continuazione a quella di Rohrbacher” (1879-1886). Nella prefazione all’opera, mons. Balan scriveva: “Io nulla devo ai potenti, ai grandi della terra; ma devo a Dio, alla Chiesa, alla patria, alla coscienza mia la verità; se ad altri qualche cosa dovessi, e senza offendere la gratitudine non potessi parlare liberamente, deporrei la penna, non mentirei”. L’opuscolo su Giordano Bruno fu la risposta dei cattolici intransigenti, raccolti nell’Opera dei Congressi, alla strumentalizzazione che gli anticlericali stavano facendo dell’apostata di Nola.
Per sfidare la Santa Sede, i settari vollero erigere un monumento a Giordano Bruno a Campo dei Fiori. Leone XIII protestò con fermezza alla provocazione e minacciò persino di lasciare l’Urbe; il Comitato permanente dell’Opera dei Congressi diffuse in modo capillare il testo di mons. Balan, dato alle stampe nel 1886.
Per ironia della sorte, monsignor Pietro Balan morì il 13 febbraio 1893, nello stesso giorno in cui nel 1600 terminava la vicenda umana di Giordano Bruno.
Le pagine che seguono permetteranno di conoscere l’autentico ­profilo di un personaggio (definito da Leone XIII “doppiamente ­apostata, convinto eretico”), che la Massoneria ha riesumato dall’oblio della storia per elevarlo a martire del libero pensiero. Infatti a Giordano Bruno, frate apostata, mago, spia, scomunicato da luterani e calvinisti, sono dedicate un gran numero di logge e di onorificenze massoniche.
La ristampa dell’opuscolo di mons. Balan da parte del Centro Librario Sodalitium permette di far conoscere ai lettori uno dei più importanti autori cattolici del XIX secolo che, proprio per la sua ­ortodossia, è stato ignorato anche dall’editoria cattolica dal dopoguerra­ a oggi. Rimane il disappunto nel constatare che l’oblio ha investito anche la stampa del “tradizionalismo cattolico”, che spesso si limita alla traduzione di autori d’oltralpe senza sapere o senza voler valorizzare le ricchezze degli autori di lingua italiana.
In appendice al libro il lettore troverà due rari documenti di Leone XIII su Giordano Bruno, scritti in occasione dell’inaugurazione della statua in Campo de’ Fiori (l’unica piazza storica di Roma dove non è presente una chiesa): l’allocuzione Amplissimum collegium del 24 maggio 1889 e l’enciclica Quod nuper del 30 giugno 1889.

http://www.sodalitium.biz/index.php?ind=reviews&op=entry_view&iden=35

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La spia inglese Giordano Bruno, alias Henry Fagot (fascine per il rogo)

Posted by Controrivoluzione su aprile 9, 2009

Giordano Bruno, 007 al servizio di Sua Maestà. Il filosofo a Londra fu una spia lo rivela una biografia americana, di Richard Newbury

La nuova biografia di Ingrid D. Rowland Giordano Bruno – Filosofo Eretico (Farrar, Strauss & Giroux, New York 2009, 27 dollari) ricostruisce in modo assai intrigante, attraverso i suoi scritti, la peripatetica vita del Nolano – scomunicato sia a Roma sia a Ginevra – fino al martirio sul rogo il 17 febbraio 1600. La professoressa Rowland, un’americana che insegna a Roma, riconosce che il soggiorno di Bruno in Inghilterra gettò i semi della sua filosofia ma minimizza la sua straordinaria influenza sull’Inghilterra elisabettiana.
Giordano Bruno non si sentì mai così felicemente a casa come nei due anni (1583-1585) trascorsi in Inghilterra, dove ebbe grande successo come guru e in quanto tale fu sbeffeggiato da Shakespeare in Pene d’amor perdute nella figura di Berowne: «Andiamo allora, io giuro di studiare per sapere quello che mi è proibito sapere» (Atto I, Scena III, 59-60). I suoi tentativi di insegnare a Oxford fallirono, le sue lezioni sull’astronomia e l’immortalità dell’anima non piacquero: perché era un seguace di Copernico e perché, con la sua memoria fotografica, aveva plagiato Marsilio Ficino.
A quel punto decise che il suo mercato sarebbe stato Londra con la sua Corte e non Oxford, dove «non c’erano più dottori in filosofia ma dottori in grammatica. Un’intera costellazione di costoro regna su questa campagna felice e la loro ostinata ignoranza, la loro gelosia e presunzione si combinano con una rustica inciviltà di maniere che avrebbe provocato la pazienza di Giobbe. Ciechi somari che non si preoccupano di cercare la verità ma solo di studiare e giocare con le parole».
Bruno fu un catalizzatore del Nuovo Teatro e della Nuova Scienza: in quel momento una miscela alchemica di magia e matematica, di astronomia e astrologia, di empirismo e mito, si fondevano nella scienza moderna. Il Nolano ispirò la controcultura anti-aristotelica e «ateistica» della «Scuola della notte» di Sir Walter Raleigh, il cui esperimento pratico fu la colonia in Virginia – la loro personale isola di Prospero della Tempesta – e l’esperimento creativo del Dr Faustus di Kit Marlowe – un Bruno sasson». Faustus, come Bruno, aveva studiato a Wittenberg. E così avevano fatto non solo Amleto, che mette sottosopra una corte aristotelica (e le tre unità aristoteliche del dramma) come avviene nella Renovatio mundi di Bruno, ma anche il suo amico Orazio «spirito calmo» e le spie Rosencrantz e Guildenstern. «Oh Dio, potrei essere rinchiuso in un guscio di noce e credermi re di uno spazio infinito – se non fosse che faccio brutti sogni», dice Amleto, alludendo agli universi multipli di Bruno.
Amleto, come Bruno, rifiuta un universo culturale, politico, cosmologico. Se Amleto in «Essere o non essere» ha difficoltà nel passare dal pensiero all’azione, non è perché pensa troppo ma perché le sue idee implicano una renovatio totale che nessuna singola azione o «vendetta» può determinare. «Il tempo è fuori dai cardini / ed è un dannato scherzo della sorte / che io sia nato per riportarlo in sesto». La renovatio è nell’arrivo di un nuovo e incorrotto principe Fortinbras. L’uomo, per Amleto, è «quintessenza di polvere», il che rispecchia l’idea di Bruno che la morte è mutazione e trasformazione continua. «Se adesso è la mia ora, vuol dire che non è più da venire; se non è da venire, sarà adesso; se non è adesso, dovrà pur venire. L’importante è tenersi pronti». (VII 216-218). Tutto questo lo troviamo nello Spaccio de la bestia trionfante di Bruno. Il padre di Amleto era stato assassinato, come anche le contemporanee teste coronate di Scozia, Olanda e Francia (due). La fatwa incluse nel 1570 la scomunica contro la regina vergine, richiesta perché aveva assassinato, prendendone poi il posto, la cattolica Maria Stuarda, regina di Scozia. Il fatto che a Elisabetta fosse stata risparmiata analoga sorte è in larga parte dovuto a Bruno la Spia, che lavorava per l’uomo che aveva organizzato la rete di agenti segreti della regina, Sir Francis Walsingham, un genio in un’altra arte occulta.
Enrico III spedì il suo lettore domenicano rinnegato a fare il cappellano, il confessore e l’elemosiniere di Michel de Castelnau, l’ambasciatore francese a Londra nel momento in cui era caduta l’ipotesi di matrimonio tra Elisabetta e suo fratello, il duca d’Alençon poi d’Angiò. Ufficialmente Castelnau negoziava un esilio in Francia di Maria Stuarda ma ufficiosamente tramava, aiutato dall’ambasciatore spagnolo Mendoza e dai cospiratori cattolici in Inghilterra e all’estero, per portarla – lei che era vedova del re di Francia Francesco di Valois, deposta regina di Scozia e legittima regina d’Inghilterra – sul trono di Elisabetta, liberato da un provvido assassinio.
Lo 007 Bruno ebbe una parte cruciale nel contrastare queste trame. Detestava in egual misura il papato e la dottrina protestante della predestinazione ma sosteneva la politica estera protestante di Elisabetta in quanto era la più antipapista. Come vediamo nella Cena de le Ceneri scritta per l’amico Smitho e ambientata a Londra, Bruno ammirava Leicester, Walsingham ed Elisabetta. Il suo Spaccio de la bestia trionfante, scritto nel 1584 e dedicato al poeta soldato Sir Philip Sidney, è un peana in onore della sua Astrea (Elisabetta) e del suo nuovo ordine di giustizia, tolleranza e armonia.
Bruno era già ‘sotto copertura’ presso l’ambasciata francese come segreto prete cattolico. Con lo pseudonimo di Henry Fagot (in inglese: fascine per il rogo) scrive a Walsingham e direttamente anche a Elisabetta. Corrompe il segretario dell’ambasciatore, il signore di Courcelles, per poter accedere a tutta la corrispondenza segreta tra Maria e la Francia e intanto ottiene da quell’ubriacone dell’ambasciatore spagnolo Mendoza la conferma che la Francia stava progettando per la regina di Scozia un matrimonio spagnolo e un’alleanza anti-inglese. Viene a sapere anche che Fowler, la spia di Walsingham, faceva il doppio gioco e, soprattutto, procura l’unica prova lampante del complotto di Francis Throckmorton per invadere l’Inghilterra con truppe francesi e spagnole, assassinare Elisabetta e incoronare Maria. Il complotto ovviamente fallisce, Throckmorton viene arrestato, processato e giustiziato, Mendoza espulso e Castelanu rischia la stessa fine. Bruno sventa così la più seria minaccia a Elisabetta fino all’Invincibile Armata del 1588. Poi, confessando la spia di Mendoza Pedro de Zubiaur, viene a conoscere i piani per avvelenare i profumi e la biancheria di Elisabetta. E’ sempre Bruno a scoprire il complotto di Thomas Babington e a fornire l’unica prova inconfutabile dell’attiva connivenza di Maria, che la portò al processo e all’esecuzione.
Bruno era una spia eccellente – coraggioso, brillante, solido, attento e senza scrupoli morali nei confronti di amici e nemici. In Spaccio c’è una giustificazione cifrata: «La semplicità pedissequa de la Veritade non deve lungi perregrinare dalla sua regina, benché talvolta la dea Necessitade la costringa di declinare verso la Dissimulazione, a fine che non vegna inculcata la Simplicità o Veritade, o per evitar altro inconveniente. Questo facendosi da lei non senza modo ed ordine, facilmente potrà essere fatto ancora senza errore e vizio».

(Da La Stampa del 9 aprile 2009)

Per saperne di più: Pietro Balan, Il vero volto di Giordano Bruno: http://www.sodalitium.biz/index.php?ind=reviews&op=entry_view&iden=35

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Ma l’avete mai letto Darwin?

Posted by Controrivoluzione su marzo 4, 2009

Piergiorgio Odifreddi ha scritto un libro per dimostrare che Charles Darwin è un genio, e il Verde Giorgio Celli ha dichiarato a “Il Messaggero” (28/11/2005) che «a 15-16 anni scoprii Darwin: non un maestro, un santo protettore». Eppure, c’è chi sostiene che nelle scienze sociali Darwin abbia fornito le argomentazioni per sostenere e diffondere il razzismo e l’eugenetica.

A questo proposito un’autorità in materia come George Mosse nel suo libro “Il razzismo in Europa: dalle origini all’olocausto” (Laterza, 1994), scrive che i pensatori illuministi, basandosi proprio sulle teorie di Darwin, avevano concepito una nuova forma di razzismo, il «razzismo scientifico». E non è il solo, anche gli storici, Michael Burleigh e Wolfgang Wippermann nel libro “Lo stato Razziale – Germania 1933/1945” (Rizzoli, 1992), scrivono che «fu Darwin e non Gobineau l’involontario progenitore dell’ideologia razzista. A lui si deve infatti la teoria della selezione naturale come meccanismo dell’evoluzione, che sarebbe stata al centro di tutte le successive elaborazioni razziste». Insomma, proprio nell’anno in cui si festeggia il bicentenario della nascita e i 150 anni della pubblicazione delle «Origini delle specie» di Charles Darwin, emerge che il problema non è solo se la teoria evoluzionista nega la teoria dell’esistenza di un Creatore, ma, questione ben più scottante, se la teoria di Darwin applicata alla sociologia porta a gravi derive quali il razzismo, l’eugenetica e la soppressione dei più deboli. Secondo alcuni autori però, l’orrore conosciuto come «darwinismo sociale», sarebbe da attribuire ai suoi seguaci piuttosto che a Darwin.

Per cercare di chiarirci le idee siamo andati a leggere esattamente cosa Darwin ha scritto nel libro “L’origine dell’Uomo” nell’edizione pubblicata da Editori Riuniti nel 1983, e siamo rimasti inorriditi. In un capitoletto intitolato «Selezione naturale operante nelle nazioni civili» Darwin spiega perché l’uomo civilizzato ha uno svantaggio rispetto al selvaggio, e scrive: «Fra i selvaggi i deboli di corpo e di mente vengono presto eliminati; e quelli che sopravvivono godono in genere di un ottimo stato di salute.
D’altra parte, noi uomini civili cerchiamo con ogni mezzo di ostacolare il processo di eliminazione; costruiamo ricoveri per gli incapaci, per gli storpi e per i malati; facciamo leggi per i poveri; e i nostri medici usano la loro massima abilità per salvare la vita di chiunque fino all’ultimo momento. Vi è ragione di credere che la vaccinazione abbia salvato migliaia di persone, che in passato sarebbero morte di vaiolo a causa della loro debole costituzione. Così i membri deboli della società civile si riproducono. Chiunque sia interessato dell’allevamento di animali domestici non dubiterà che questo fatto sia molto dannoso alla razza umana. E’ sorprendente come spesso la mancanza di cure o le cure mal dirette portano alla degenerazione di una razza domestica: ma, eccettuato il caso dell’uomo stesso, difficilmente qualcuno è tanto ignorante da far riprodurre i propri animali peggiori» (pag.176).

«Dobbiamo perciò sopportare – continua Darwin – gli effetti indubbiamente deleteri della sopravvivenza dei deboli e della propagazione delle loro stirpe» (pag.177). Abbiamo capito bene? Aiutare i deboli, curare i malati, vaccinare salvare migliaia di persone con è un «effetto deleterio» per l’evoluzione della specie? Ma l’autore inglese non ha dubbi, per favorire la selezione naturale in cui il debole deve essere soppresso a favorire del più forte Darwin ha scritto: «Eppure l’uomo potrebbe mediante la selezione fare qualcosa non solo per la costituzione somatica dei suoi figli, ma anche per le loro qualità intellettuali e morali. I due sessi dovrebbero star lontani dal matrimonio, quando sono deboli di mente e di corpo; ma queste speranze sono utopie, e non si realizzeranno mai, neppure in parte, finché le leggi dell’ereditarietà non saranno completamente conosciute. Chiunque coopererà a questo intento, renderà un buon servigio all’umanità» (pag. 255). Ed ancora «Il progresso del benessere del genere umano è un problema difficile da risolvere; quelli che non possono evitare una grande povertà per i loro figli dovrebbero astenersi dal matrimonio, perché la povertà non è soltanto un gran male, ma tende ad aumentare perché provoca l’avventatezza del matrimonio. D’altra parte, come ha notato Galton, se i prudenti si astengono dal matrimonio, mentre gli avventati si sposano, i membri inferiori della società tenderanno a soppiantare i migliori» (pag.256).

Capito? Per Darwin se sei povero e debole non dovresti avere diritto a sposarti. In conclusione c’è da chiedersi, ma i grandi estimatori dell’autore inglese, coloro che stanno riempiendo saggi, riviste e libri su Darwin, hanno mai letto quello che ha scritto?

di Antonio Gaspari

http://www.ragionpolitica.it/cms/index.php/ambiente/ma-lavete-mai-letto-darwin.html

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